Foto di classe

No, la foto della mia classe al Ginnasio non me la posso bruciare in un attimo.
Prima di tutto ci vuole una musica adatta ed è per questo che metto su un disco di De Gregori, quello con Generale e Renoir, anno 1978.
Più o meno ci siamo.
Poi guardo la foto.
Vediamo se ricordo i nomi. Sono passati 40 anni.
Li ricordo tutti tranne due che ho sulla punta della lingua.
Vedete la foto.
E’ stata scattata nel campetto dove si giocava a pallone.
Dietro c’è quella che dovrebbe essere una porta, un giorno tirai una bomba da centrocampo e il pallone che sembrava destinato ad uscire si abbasso improvvisamente e ando’ a infilarsi nel set a destra.
Fu il gol piu’ bello che feci in vita mia.
La mia prima fidanzatina venne un pomeriggio a vedermi giocare, mi fecero un fallo e lei entro’ in campo per accertarsi delle mie condizioni.
Sono cose che non si fanno le dissi.
Rischio di essere preso per il culo per tutto l’anno scolastico.
E cosi’ lei imparo’ che se fanno un fallo al tuo ragazzo si puo’ urlare un vaffaculo al difensore scorretto ma non si puo’ entrare in campo a soccorrere il fidanzato.
Il prete era il Preside della scuola.
Padre Bassotti.
Il Preside entrava nelle foto di tutte le classi e si regalava un eternità relativa nei ricordi infantili di migliaia di ragazzini.
Era un bravo Preside.
Possibile che non ricordi una volta in cui ebbi paura di lui.
Non la ricordo.
Nella foto c’è anche Tixi, era il mio migliore amico, e forse manco lo sa.
Accade che a volte si è migliori amici senza saperlo.
E se ci fate caso i migliori amici non si assomigliano mai.
Mentre io passavo i pomeriggi in discoteca lui leggeva libri e suonava i cantautori.
Diciamocelo io ero il tamarro e lui l’intellettuale.
Ma ogni intellettuale ha bisogno di un tamarro per sentirsi piu’ intellettuale e ogni tamarro ha bisogno di un intellettuale per sentirsi piu’ tamarro.
Nessuna delle ragazze nella foto mi ha mai preso in considerazione, in classe gli ormoni erano nascosti, si mandavano avanti le truppe dell’indifferenza.
Una compagna di classe era a quei tempi un po’ come una cugina.
Non si esce con le cugine….
Cioè a dire il vero qualche anno dopo cambiai idea.
Ora quel campetto di calcio è diventato un parcheggio.
Dio sa dove fanno ora le foto di classe.
Ma quando mi sono affacciato al cancello e ho visto la fine ingloriosa del mio campetto di calcio trasformato in parcheggio non ho potuto fare a meno di chiedermi come mai sembra sempre che le cose tendano a peggiorare.
Pensate se invece di farlo diventare un parcheggio ci avessero messo un fondo di erba sintetica.
Quella si che sarebbe stata un sorpresa.
Magari sarei entrato a fare due palleggi e avrei riprovato quel tiro da centrocampo.
Magari.
E ora compagni di classe che non vi vedo piu’ da quasi 40 anni se ci siete battete un colpo.
Quelli che hanno ancora i capelli giuro che li riconoscerei uno per uno, sugli altri non garantisco…
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Lago Ghiacciato

L’ignoranza mi salva come un impalcatura che mi protegge dal crollo della fantasia.
Seduto su una pietra di fronte a un lago ghiacciato ne intravedo le crepe che mi permettono di giudicarlo pericoloso, appoggio un piede su una lastra e il suono del crac mi da lo stesso gusto di quando sgranocchio patatine.
Mi abbuffo di una decina di crac, lasciando crepe da cui si libera acqua imprigionata da tutto l’inverno.
Arriva una coppia di giapponesi che si fa decine di selfie, la donna si mette in tutte le pose possibili copiando le copertine dei giornali di moda.
Tre quarti, profilo che guarda l’infinito, frontale con faccia ammiccante, accovacciata con espressione maiala, col cappello, senza cappello, con giacca, senza giacca.
Ne approfitto per cucinarmi un minestrone di lenticchie al quale aggiungo un cucchiaio di verdure in polvere.
Finisco di mangiare e alla coppia di giapponesi si è aggiunta una figlia, protagonista anche lei di uno shooting fotografico con il padre nelle vesti di fotografo invasato che le urla parole di approvazione incomprensibili.
E’ bizzarro come la natura si lasci violentare senza ribellarsi.
Senza nemmeno far cadere un ramo sulla testa del giapponese, o facendo scivolare sulla neve l’improvvisata top model orientale, basterebbe cosi’ poco per far tornare il silenzio.
L’arrivo di un orso incazzato per esempio, o il planare minaccioso di un aquila.
Niente da fare.
La natura è gentile per natura.
E come tutti i caratteri gentili quando si incazzano si incazzano davvero e non guardano in faccia nessuno.
Ritorna il silenzio.
Baby ama la neve, la lecca avidamente, vorrebbe correre sfidando la resistenza del ghiaccio, le urlo di rimanere ferma.
Mi guarda perplessa e se ne torna sul van con l’espressione di chi è stata sgridata senza capire il perchè.
Sono un cacciatore di storie uso frecce di plastica con ventose all’estremità.
Scocco la freccia contro finestre che danno sul mondo
alito sul vetro e sulla nebbia creata dal mio fiato
disegno cerchi concentrici per mettere a prova la mia abilità
lupi per mettere alla prova il mio coraggio
montagne per colpire facile
e uomini per il piacere ancestrale di uccidere il nemico.
Oggi sul vetro è apparso un autobus che prendeva una curva larga e investiva il mio cane, mi sveglio agitato per l’incubo.
Il cane è appoggiato col muso al mio materasso che è troppo alto per permettergli di salire.
Ha freddo.
Lo prendo e me lo metto dentro il sacco a pelo.
Si addormenta e sento il suo muso appoggiato alla mia nuca.
Dio ha creato gli incubi per concederci il lusso di riparare ai nostri errori e anche ai suoi.
Oggi non mi muovo. Ho bisogno di star fermo.IMG_8388

Wakan Tanka, Montana

Non credere in Dio e guardarlo negli occhi.
Occhi rosa e bianchi dalla tenerezza infinita.
La benedizione e la condanna di essere unico, il sacro senza religione, la fragilità del bianco e la forza del bisonte.
Regalo del divino alle popolazioni indiane del Nord America che quando lo osservano è come se osservassero la speranza fatta carne.
Non dimenticherò mai il mio incontro di oggi, quegli attimi in cui mi sono sentito vicino a risolvere il mistero della vita grazie a una anomalia genetica apparsa come una prova della creatività del creatore.
Torno verso Billings in Montana e mi chiedo:
E ora? Ora dove vado? E’ come se avessi trovato tutto quello che stavo cercando.
La prateria, la montagna, le nuvole, la pioggia, i fiumi, i laghi, tutto in quello sguardo triste del Bisonte che vorrebbe essere come gli altri ed invece è condannato ad essere diverso.
Nel diverso c’è il mistero della vita.
Siamo tutti albini senza saperlo.
Tutti unici, senza uguali, forzatamente soli in mezzo a una mandria di nostri simili.
Questo ho visto nei suoi occhi.
Quella gabbia di solitudine che ognuno di noi occupa e dal quale nessuno puo’ uscire.
Eravamo io e lui , un uomo e un bisonte, due argini che non si toccheranno mai ma che insieme dividono il corso dello stesso fiume chiamato vita.
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L’albero del Ricordo a Little Big Horn

Sulla collina dov’è caduto Custer la gente si ferma ad osservare il luogo dove l’ultima resistenza del 7° cavalleria è stata stroncata.
A vegliare c’è un monumento che ricorda i caduti dell’esercito degli Stati Uniti.
Poco spostato sulla sinistra c’è un albero solitario.
L’unico ostacolo a un vento incostante che spazza la collina inclinando l’erba in direzione del Little Big Horn.
I bambini si attaccano al cancello di ferro che circonda le lapidi dei caduti puntando col dito tra le lapidi bianche l’unica lapide nera.
E’ quella del Generale, dice il padre, è il luogo dove è morto.
Il bambino fa una faccia strana alla parola “death”.
Avete presente quelle facce che si fanno quando si intuisce ma non si capisce.
Poi mi rigiro verso l’albero e vedo un Nativo Americano inginocchiarsi a pregare, si rialza, tira fuori una striscia di tessuto bianco dalla tasca e l’annoda a un ramo dell’albero.
Si avvicina un Ranger, gli dice qualcosa, si fa consegnare un fascio di rami di artemisia che l’indiano teneva in mano, poi gli fa segno di allontanarsi.
Lui non fa resistenza, consegna i rami e se ne va.
Mi avvicino all’albero e rimango incantato.
Il vento gioca con i tessuti, le perline, i campanelli che legati con un nodo semplice sono li a testimoniare il ricordo di chi non vuole dimenticare.
La storia la scriveranno i vincitori, ma nessuno puo’ negare agli sconfitti la memoria.
Mi sono emozionato.
E sono rimasto li a guardare uno per uno tutti nastri, le corde, i tessuti intrecciati alla pianta e mentre li guardavo sembrava che la brezza li scrollasse accompagnando con il soffio i miei sguardi.
Abbiamo tutti bisogno di credere in qualcosa.
Dai polmoni del cielo arrivava il respiro dei guerrieri ad accarezzare e consolare il bambino affranto di fronte al giocattolo fatto a pezzi.

Oglala Sioux Tribe

Metto a letto la bambina, le rimbocco le coperte, do un occhiata fuori per osservare la luna piena che getta l’ombra di un ramo sul muro ingiallito.
Ieri è morto il nonno e mia figlia mi ha chiesto perchè le persone muoiono.
Le ho risposto che la Donna Gufo aveva bisogno di lui per costruire una scala di legno che permettesse alle anime di tornare sulla terra.
Appena avrà finito di costruirla dovrà provarla e sarà il primo a tornare.
Papà il nonno era bravo a lavorare il legno?
Era il piu’ bravo, l’unico che potesse costruire una scala che arrivasse fino al cielo.
Si è addormentata sorridendo.
Ci vuole sempre un motivo che giustifichi il dolore per evitare di esserne sopraffatti.
Domani le insegnerò ad andare a cavallo, preparo quel puledro pezzato che sembra sempre sul punto di addormentarsi.
Sarà il piu’ bel giorno della sua vita.
Lo è stato per me, la prima volta che ho cavalcato.
Esco dalla casa e mi siedo nel portico sulla sedia dove si sedeva mio padre e dove si sedette mio nonno.
Il freddo lancia la sua sfida.
Non l’accetto.
Nel letto c’è Kimimela che mi aspetta tra le sue braccia.
Un vecchio sciamano un giorno mi disse:
Se cerchi un senso non cercarlo in un lago eternamente immobile, trovalo nella breve esistenza di una goccia di rugiada.

Ho 17 minuti.

Ho 17 minuti prima che Starbucks chiuda e mi cacci fuori.
Ho mangiato un gelato alla fragola.
Ho percorso 300 miglia su una strada di campagna che tagliava in due una colata di verde.
Ho aggiustato con lo scotch il coprisedile.
Ho baciato la Baby che sembrava triste.
Ho trovato un serpente morto e un antilope viva.
Ho pensato a quanto bene voglio a mia moglie passando dagli stessi luoghi che vidi con Lei e mi piace chiamarla moglie per ricordarmi che ci siamo sposati come fanno i bambini quando vogliono imitare i grandi e giocano ad amarsi per provare l’effetto che fa.
Ho telefonato a mia madre per dirle che il mio numero americano era cambiato ma non aveva una penna per scrivere quello nuovo.
Ho spaventato una donna che non capiva perchè fotografassi il suo giardino, le ho detto che il suo giardino è bellissimo e mi ha offerto un caffè.
Ho camminato contro un vento che scompigliava gli alberi, ho allargato le braccia per opporre piu’ resistenza e lui ha gonfiato le guance trattenendo piu’ aria possibile poi ha soffiato scaraventandomi indietro, felice come un pazzo che finalmente ha trovato qualcuno che lo sta ad ascoltare.
E ho incontrato Robert, cowboy del South Dakota, che mi ha raccontato di quando ha sposato la sua moglie indiana Becky e vivevano in una roulotte e possedevano cinque mucche su un prato.
Erano tempi duri, ma insieme si sono dati da fare.
Oggi hanno un ranch di cui non si vedono confini, quindicimila mucche e altrettante pecore, ha quattro figli e cinque nipoti.
Mi porta in giro per il suo ranch, mi fa vedere il Saloon che ha appena costruito e mi offre una birra.
Lo guardo e sembra un ragazzo, ha tre anni meno di me ed è nonno.
Torno sul van mi guardo nello specchietto e mi dico:
Potresti essere nonno e sei ancora qui a cazzeggiare in giro per l’America come se ci fosse un domani ma nessuna certezza sul dopodomani.
Il tempo di vedere un tizio che mi fa cenno di fermarmi.
Ci sono lavori stradali piu’ avanti.
Mi dice di spegnere il motore che almeno per mezz’ora si sta fermi.
Gli chiedo se posso farmi una dormita e se poi mi sveglia.
Fai pure. Mi risponde.
Mi addormento.
Quando la sua mano batte sulla mia spalla apro gli occhi e non capisco.
Dove cazzo sono?
Cosa ci faccio qui?
Aspetta, mi devo svegliare, ok, sono in giro per l’America, sto andando verso sud, sono vicino a Sturgis, e mi sono addormentato, tutto sotto controllo, tranne il fatto che il sogno sembrava reale e la realtà sembra un sogno.

Reeder, North Dakota

Reeder, North Dakota
A volte vedi qualcosa d’interessante sul lato della strada e nel momento in cui pensi che l’avresti potuto fotografare ti ritrovi già qualche centinaio di metri piu’ avanti.
Al diavolo, trovero’ qualcosa di piu’ bello.
O forse no.
Qualche centinaio di metri dopo ho frenato, ho trovato uno slargo e sono tornato indietro.
Tutta colpa, o merito, di una casetta azzurra.
Una normale, banale, minuscola casetta azzurra.
L’ultima di una via, in una città deserta di uomini e piena di casette.
C’è un mistero irrisolto che avvolge le minuscole cittadine del Midwest.
Si dice che non siano gli umani ad abitare le case, ma le case ad abitare gli umani.
Le strade sono solo apparentemente deserte.
Gli uomini sono tutti dentro ma le case sono tutte fuori.
La casetta viola scambia quattro chiacchiere con quella bianca, il portico della casa rossa chiede consigli di giardinaggio al pozzo della casa gialla, la vecchia tenda a rullo della casa grigia spia invidiosa il continuo agitarsi delle giovani tende arricciate della casa rosa.
Attraverso la via e sento lo scricchiolare del legno sotto sforzo per il tentativo delle finestre di seguirmi con lo sguardo.
Tranquille ho tempo e vi fotografo tutte, voi non muovetevi che vengo io.
Nella città si sente un corale sospiro di sollievo.
Nei luoghi dove non accade mai nulla l’arrivo di un fotografo che cerca oggetti da fotografare crea sempre una certa confusione.
In mezz’ora ho finito il casting.
In città torna la tranquillità.
La casetta azzurra prima che me ne vada mi chiede:
“Dici che sono venuta bene? Magari mi portano via da qua. In qualche posto dove accade qualcosa. Scrivilo che sono stata abbandonata.”
“Promesso che lo scrivo.”
“Sono disposta ad andare dovunque. Mi basta essere riscaldata d’inverno e avere un po’ di fresco d’estate e …
“E…”
“E magari qualche bambino che mi faccia il solletico correndo su e giù per le scale e che trasformi il sottotetto nel suo rifugio segreto. Cosi’ sarei veramente felice.”
E con la missione impossibile di rendere felice un vecchia casa abbandonata risalgo sul van.
Troverete la foto della casetta azzurra insieme alle altre case di Reeder, se qualcuno di voi vuole proporsi per essere abitato da quella specie di stamberga me lo faccia sapere, ma solo se avete bambini che non sopportano la televisione e i videogiochi ma amano rifugi segreti e correre come pazzi su e giù per le scale.
(Ma l’avete capito qual’è la casetta azzurra rimasta sola?)

Medora

La città avrà il tuo nome mia amata Medora.
E’ perchè ti amo, Medora.
Perché senza di te non sarei mai riuscito a realizzare i miei sogni.
Tu sei la scintilla, Medora, che ha acceso il fuoco.
Possiedo solo una città, se possedessi il mondo, il mondo avrebbe il tuo nome.
Se possedessi il cielo, il cielo avrebbe il tuo nome.
Grazie Medora per aver partecipato al nostro sogno.
C’era una volta in cui l’amore era costruire insieme, c’era una volta che la donna teneva ferma la scala e l’uomo saliva, saliva, sicuro che non sarebbe mai caduto perchè lei aveva forza, coraggio e amore da farlo salire sul tetto del mondo.