Testa o croce

Ti aspetti sempre che esca testa o croce.
Non hai fiducia e manchi di fantasia.
A me esce sempre l’indiano.
E non ci sono ne vinti ne vincitori.
Non avevo nulla da perdere, non ho nulla da vincere.
Sono come un ricercato che segue le tracce dei cercatori di taglie per averli sempre davanti ed evitare di essere sorpreso alle spalle.
Non so come convincerti ad avere fiducia di me, è una questione d’istinto, vederti dormire tranquilla di fianco a me è la gratificazione più grande, sentire nel tuo sguardo la paura del tradimento mi fa sentire colpevole di qualcosa che non ho fatto.
Ho diviso la mia vita in piccoli segmenti di tempo che vanno dall’alba al tramonto, ed ogni sera traccio una freccia sul muro.
Direzione verso il cielo, giornata bella.
Direzione verso il basso, giornata brutta.
Sono semplice, sono un “due più due” che fa quattro, non aspettarti sorprese, non saprei sorprenderti con cambi improvvisi di direzione.
Ho il difetto di amare le cose prevedibili.
Bagnarmi con la pioggia.
Asciugarmi sol sole.
Felice se sto bene.
Infelice se sto male.
Visto con sospetto da chi è felice solo quando soffre, visto con sospetto da chi cerca lo scontro per sentirsi vivo.
Se contassi tutte le volte che mi sono sentito perduto avrei lo stesso numero di tutte le volte che da qualche parte mi sono ritrovato.
Non ho più il coraggio di sfidare me stesso, benedetto il giorno che qualcuno smetterà di sfidarmi.
Seduto accanto al fuoco mi lascio incantare dalle scintille sparate verso l’alto dalla legna che brucia, ne seguo lo spegnersi e una volta spente ne seguo altre che si spegneranno.
Domani mattina anche il fuoco sarà spento.
Ma non sarà questo pensiero a farmi desistere dal caldo, dalla luce e dalle scintille che questa fiamma regala all’attimo presente.

Nei dintorni di Sturgis

Nei dintorni di Sturgis mi trovai di fronte al passato e al presente separati dal muro di un garage.
A sinistra ci si prende cura del cavallo, a destra si fa la manutenzione della moto.
Ero a metà strada tra Chicago e Los Angeles, era il 1998, si viaggiava con le mappe di carta e con il piacevole timore di perdersi.
Cercavo qualcosa che qualsiasi superficiale avrebbe definito “me stesso” ma che io avvertivo come tutto all’infuori di me.
Non avevo bisogno di cercarmi, forse di perdermi, ma più di ogni altra cosa il viaggio era semplicemente il bisogno di capire che la mia casa fosse “altrove” da dove era sempre stata.
Che fosse la voglia di sentirsi cittadino di una terra straniera, o straniero nella propria patria poco cambiava, volevo sentirmi libero da ogni appartenenza.
Come un cavallo che può diventare moto o una moto che può trasformarsi in cavallo quel che conta non era il mezzo ma avere una strada o un terreno su cui correre senza doversi guardare indietro.

A me piace

A me piace viaggiare di notte.
Con Willie Nelson che suona alla radio.
E mi piace non sapere dove vado.
Mi serve per dare uno spazio percorribile al tempo.
Mi serve per dare un tempo da vivere allo spazio.
Scollinando verso Ovest passo accanto a una linea continua di lampioni che stampano sul parabrezza strisce di luce infiltrate da macchie scure che altro non sono che cadaveri di moscerini schiantati contro il vetro.
Sono solo di quella solitudine inspiegabilmente cercata che regala l’eccitazione idiota dell’ultimo desiderio realizzato prima di morire.
Gli umani mi passano accanto come fantasmi che rincorrono i loro lenzuoli nel tentativo disperato di farsi notare.
Quando Willie smette di cantare mi basta farlo ripartire da capo per fottere al tempo tre minuti da vivere due volte.