Glielo devo perché da quando io non sono più Lui , Lui mi chiede solamente di non dimenticarlo.
E glielo devo, perché sono ciò che sono grazie a Lui.
E’ grazie a Lui che resisto al freddo e al caldo, ed è merito suo se al posto di dire “fuggo” oggi dico “parto”, è stato Lui ad insegnarmi a riempire il tempo come fosse una buca nella quale era facile inciampare, Lui mi ha insegnato che avere paura è normale.
Ci siamo scambiati di posto quasi senza accorgercene.
Lui si è alzato dal banco e io mi sono seduto su un auto.
Lui ha smesso di indossare i calzoni corti e io cominciavo a scegliermi i vestiti
Lui ha smesso di chiedere di essere amato quando io ho cominciato ad amare.
Ma mentre mi guardava allontanarmi io vedevo i suoi occhi piangere e chiedermi:
Non perdermi.
E invece lo persi.
Lo persi come si perde un maglione che ci sta stretto, o una penna con la punta spezzata.
Lo persi come si perde un amico che cambia città, lo persi come si perde un armonica che non si è più capaci di suonare.
Lo persi per non pensare.
Perché pensarci era come grattarsi una ferita sul ginocchio, era come soddisfare la curiosità di vedere se sotto la crosta c’era ancora sangue, e trovato il sangue assaggiarlo per la curiosità di sapere che sapore ha.
E non sa di nulla.
Sapete quando Lui era piccolo non si facevano molte fotografie.
Solo in occasioni speciali.
Non è come adesso che ogni futuro uomo potrà ripercorrere ogni momento della sua vita attraverso migliaia di immagini digitali pronte a ricordargli tutte le sue trasformazioni.
Quando Lui era piccolo era facile dimenticarsi di se stessi.
Le cose accadevano ma non c’erano prove, nessuna traccia, solo il ricordo, e poi il ricordo si trasformava in dubbio.
Ma veramente è successo?
Ed è per questo che cominciò a scrivere.
Era terrorizzato dall’idea di non credere a se stesso.
Scrivere era come fotografare, creare prove, era come estrarre il suo DNA, lo usava per assolversi o per condannarsi, usava le parole per non dimenticare se stesso.
Ed è merito suo se oggi io scrivo.
E questa lettera è per Lui, e per tutti quelli come Lui, quel Lui che siete stati anche Voi.
Ed è per quei bambini che hanno paura, per quei bambini che non sono protetti, per quei bambini che non vedono l’ora di crescere, per quei bambini che non conoscono l’odore dei propri genitori, per quei bambini che chiedono di non essere dimenticati.
Mese: Dicembre 2016
Puoi aspettarmi un attimo?
Puoi aspettarmi un attimo?
Dove vai?
Vado a prendere una cosa.
Non ci mettere troppo.
Solo un minuto.
Io non mi muovo da qui.
-un minuto-
Questo è per te.
Dove l’hai trovato?
Laggiu’. L’avevo visto passando. E mi è venuta voglia di regalartelo.
Posso provarlo?
Certo.
Come mi sta?
Sei bellissima.
Meglio che lo tolga prima di arrivare in paese, t’immagini se mi vedono con questa cosa addosso…
Ti prenderebbero per matta.
O per una principessa.
Tu sei una principessa.
Dicono che stanotte nevicherà.
Speriamo.
Se nevica vienimi a prendere presto domattina.
Lettera a Babbo Natale
Vorrei vivere in un luogo dove d’inverno cade la neve perché amo la neve e vado in estasi per il silenzio ovattato di una nevicata.
Poi vorrei avere una casa che odora di legno e un tappeto su cui sdraiarmi ad ascoltare musica.
Vorrei che nessun rumore coprisse il suono del vento e della pioggia.
Vorrei incontrare il bambino che sono stato e guardarlo da lontano, vorrei scoprirne l’andatura e lo sguardo, vorrei risentirne la voce e rivedere quel gol segnato all’ultimo minuto che lo fece immensamente felice.
Vorrei riprovare a tuffarmi dallo scoglio piu’ alto, e sentire l’impatto con l’acqua e poi bolle, tantissime bolle, e poi giù fino a toccare il fondo, rannicchiarmi e spingermi verso l’alto e risorgere all’aria.
Vorrei rimettermi a uovo e ripercorrere quella discesa sugli sci, sempre più veloce, poi arrivato alla fine della discesa godere della frenata e risalire per farlo di nuovo.
Vorrei non aver mai visto i film più belli che ho visto, non aver ascoltato le canzoni più belle che abbia mai ascoltato, non aver letto i libri più belli che abbia mai letto per rivederli, riascoltarli e rileggerli.
Vorrei che non ci si abituasse alle persone che ami e che la meraviglia non finisse mai, vorrei che non cambiassero il senso delle vie, che non avessero mai chiuso i miei negozi preferiti, vorrei che non cambiassero i sapori dei cibi e vorrei che i cani vivessero tanto a lungo quanto i loro padroni.
Vorrei che fossero silenziati i clacson, che la gente capisse che incazzarsi alla guida è una cosa da coglioni, vorrei che nessuno tocchi i bambini, vorrei che nessun uomo confonda l’amore con il dominio.
Vorrei che non fossero mai morti Lucio Dalla, Fabrizio De Andre’, Lucio Battisti e tutti quegli artisti che avevano ancora emozioni da dare.
Vorrei poter incontrare chi se ne è andato per sempre, solo un attimo, giusto il tempo di darsi un appuntamento.
Vorrei che chi decide di fare una guerra se la faccia da solo, si metta d’accordo col nemico e si diano un sacco di botte senza rompere i coglioni a chi preferisce starsene in pace.
Vorrei che si smettesse di nominare il nome di dio invano, mi riferisco a preti, cardinali, papi, pastori, rabbini e imam.
Vorrei che i grandi non diventassero tutti cinici, disillusi, avidi ma che si ricordassero di essere stati piccoli, ma cosi’ piccoli, che qualcuno deve averli per forza aiutati a crescere e che da soli non ce l’avrebbero mai fatta.
Vorrei che Babbo Natale esistesse davvero, e che esistesse la sua slitta e le sue renne, vorrei che nessuno neghi l’esistenza dei miracoli, perché la fantasia è già un miracolo.
E’ la possibilità di costruire mondi alternativi con l’immaginazione, unico indizio dell’esistenza di un anima proveniente da altrove e ospitata all’interno della nostra vita, viaggiatrice del tempo e dello spazio, anima in cerca di anime, raccoglitrice di ricordi che porterà con se come prova eterna della nostra esistenza.
L’indifferenza è istintiva.
L’indifferenza è istintiva per non lasciarsi trascinare nell’inferno altrui.
Ma la consapevolezza è una scelta.
Leggendo quello che accade ad Aleppo mi faccio domande sulla bestialità dell’uomo, poi il mio cane mi guarda e sembra dirmi:
Bestialità un cazzo!!
Riformulo la domanda, non sulla bestialità dell’uomo, ma sulla sua umanità.
Perché è di umanità che si tratta, non di bestie.
Ricordate quando a scuola studiavate la storia con indifferenza e il maestro catalogava diverse epoche facendo riferimento a guerre e rivoluzioni.
E noi bambini che giocavano ai soldatini studiavamo i conflitti come si studia la trama di un fumetto.
E oggi grandi e maturi siamo addestrati a pensare ai conflitti come ad avvenimenti matematici in cui gli umani coinvolti non sono altro che numeri che appaiono e scompaiono.
Abbiamo il privilegio dell’osservatore che dall’alto della collina vede la tempesta abbattersi all’orizzonte e vista da lontano sembra persino un grande spettacolo.
Se poi facciamo esperimenti di immersione nella realtà l’istinto all’indifferenza ci mette al riparo ricordandoci che ci sono da organizzare le vacanze di natale e il cenone di capodanno.
Consapevolezza non significa concentrarsi sul dolore altrui, ma avvertire e riconoscere il nostro cinismo come elemento fondamentale della nostra umanità.
Poi come lampo nella nebbia ci sovviene lo sguardo di un innocente che chiede aiuto, e come un lampo scompare, addentando un panino ti accorgi che la vita può essere un lusso o una miseria.
Ma se la miseria fa male, il lusso non presenta sintomi evidenti e un uomo può esserne colpito per tutta la vita senza mai accorgersene.
Osservato da Starbucks stasera.
Non ci capisco nulla, ma devo farlo, me lo chiede il governo.
Vuole sapere cose di me che nemmeno io so.
Ma il governo non permette trasgressioni alle regole
nemmeno se presentassi un certificato medico
di incapacità cronica alla burocrazia.
Sono più morto che vivo ma la parte morta non conta
per loro quel poco di vita che c’è in me
va contabilizzata.
Ho un amico che passa il tempo a guardare la televisione
e a fumarsi canne, pensate che ha cominciato a fumare a 80 anni suonati,
lui se ne fotte, quando arrivano carte da compilare non fa altro
che buttarle via.
Io non ce la faccio.
Mio padre, colonnello, mia madre, sarta, mi insegnarono
che le regole servono a tenere unita una patria e a tenere unita una cucitura
e non avevo nessuna prova contraria
e se una cucitura cedeva non era colpa della regola
ma della regola infranta
della caduta inaspettata o dello spigolo non evitato.
E allora scrivo per la milionesima volta
il mio nome e cognome
il mio indirizzo
stato, codice postale e stato civile.
E poi cosa possiedo, e cosa non possiedo più,
scrivevo sposato ora scrivo vedovo,
ma la burocrazia non si farà commuovere
semplicemente applicherà una regola diversa.
Non mi chiedono quanti figli ho,
strano,
chiedono tutto,
auto, elettrodomestici, vacanze, case e soldi
ma non mi chiedono quanti figli ho.
L’unica riga che avrei scritto con l’orgoglio di
tracciare un 3
e magari aggiungere, non richiesto,
due femmine e un maschio, tutti laureati,
tutti distanti, ma comunque figli, per sempre.
Per questo mi alzo e lascio questo foglio di merda sul tavolino
questo foglio che mi ha trattato come un oggetto da smontare
per contarne i pezzi e l’usura.
Colonnello
il governo non pensa a me
come a un uomo
il governo pensa a me come a una mucca da latte
da ingravidare senza sosta
non per la sete dell’agnello
ma per l’avidità del fattore.
Sono abbastanza vecchio
per definirmi una mucca in menopausa
non compilerò mai più nessun questionario
vado a casa del mio amico a guardare la televisione
e magari mi metto a fumare.
E ora?
E ora?
Avete mai visto uno scalatore che raggiunta la vetta decide di non tornare più?
O un ragazzo che dopo aver ottenuto la laurea si rifiuta di abbandonare l’aula dove ha discusso la tesi?
Per caso si è mai trovato un bambino che dopo aver vinto la sua prima partita al pallone decide che non vuole più lasciare il campo e si siede sulla linea di metà campo per essere trascinato via a forza?
E ditemi, dove posso incontrare quel nonno sorridente che dopo essere stato baciato da sua nipote non si è più spostato dall’uscio di casa fissando l’angolo dove l’ha vista sparire, non prima di vederla girare e ascoltare la sua voce di bambina sussurrare: “Nonno, ti voglio bene.”
Voglio un astronomo che dopo aver scoperto una stella non ha più staccato l’occhio dal telescopio, e un viaggiatore che dopo aver raggiunto il luogo perfetto si sia seduto e non si sia più rialzato.
Esistono traguardi che ti lasciano scosso e ti guardi attorno incapace di proseguire.
Hai conosciuto la gioia e scopri che non può durare, non sarebbe una gioia se fosse per sempre.
E’ come una nevicata, e tu uomo non puoi fare altro che uscire fuori di notte, col dito nascondere dal tuo campo visivo la luce del lampione e fissare milioni di fiocchi scendere al suolo lentamente come bianchi soldati paracadutati dal cielo per salvare il mondo dal grigio.
Io ancora ricordo le nevicate della mia gioventù e anche se la gioia è sparita, so che c’è stata, mi è venuta a trovare mi ha stretto la mano mi ha baciato sulla guancia e prima di andarsene mi ha lanciato uno sguardo tenero come se le dispiacesse andarsene tanto quanto a me dispiaceva vederla andare via.
Parlavo con lei…
Parlavo con lei che aveva il viso appoggiato sul cuscino.
Ci si guardava come se fossimo stati sdraiati nello stesso letto con un Pacifico o un Atlantico di mezzo.
Avevo appena goduto di un tramonto che persino io, non appassionato di tramonti, sono stato costretto a contraddirmi.
Ero seduto su una roccia guardando il gigante rosso tuffarsi in mare e divincolarsi diventando di mille colori fino a soccombere stremato di fronte a un blu scuro che apriva la strada all’imperatore nero.
Poi mi sono buttato nel letto nella parte posteriore del van e su Netflix ho cominciato a guardare un documentario sulla vita e la carriera degli Eagles.
Erano le otto e un quarto di sera.
E mentre Joe Walsh raccontava quanto erano belli quegli anni settanta io mi sono addormentato.
Sono le 22 e 36 e mi sono risvegliato da poco con una sensazione meravigliosa di felicità.
Sono nel van, ho sognato la storia degli Eagles, mi sono guardato intorno e ci ho messo qualche secondo a capire che non è mattina ma solo l’inizio della notte.
I cani dormono di fianco a me e sembra non abbiano nessuna intenzione di svegliarsi.
C’è qualcosa di magico in questo risveglio fuori orario, come se fossi tornato da una qualche avventura, come se non avessi dormito ma camminato su un sentiero che portava all’Hotel California.
Ora faccio una passeggiata sulla spiaggia e guardo l’oceano con la luce della luna e poi me ne torno a dormire e ricomincio a vedere il documentario sugli Eagles perchè mi manca la fine della storia.
So già che mi addormenterò prima che la fine arrivi, ma questo fa parte dei privilegi concessi dal sonno.
La consapevolezza è la mia unica virtù.
Non c’entra il giorno, ne l’ora ne il luogo, c’è solo una solitudina scelta, la voglia di starsene soli guardandosi dentro, infilando gli occhi nelle vene, e far scorrere lo sguardo all’interno del corpo, da cuore a cuore attraverso ogni organo interno.
Scoprirsi così mortale e debole da non sentire più alcuna responsabilità.
Il mondo è colonizzato, il popolo si riversa nelle strade felice di non aver responsabilità legate ad ideali scomodi.
Sono tutti così certi che i buoni siano quelli con la faccia da buoni ed i cattivi quelli con la faccia cattiva.
Sono così certi che non serve lottare, non serve sollevare il velo, basta fidarsi.
Dio esiste, fidatevi.
I politici lavorano per il vostro bene, fidatevi.
Gli industriali fanno studi per rendere la vostra vita più semplice, fidatevi.
I rivoluzionari conoscono ricette migliori e più democratiche, fidatevi.
Al telegiornale hanno detto…., fidatevi.
Quel giornalista ama sua moglie ed i suoi cani, fidatevi.
La droga viene dal basso, fidatevi.
I soldi comprano tutto, fidatevi.
L’uomo e la donna si amano, fidatevi.
I giovani sono il futuro, fidatevi.
Quel detersivo è una bomba, fidatevi.
Il comunismo è morto, fidatevi.
Il fascismo è morto, fidatevi.
Cos’altro…..mille altre cose e voi fidatevi sempre.
Io, rimango seduto quà, in questo bar, faccio finta di scrivere qualcosa su un pezzo di carta per far credere che ho storie da raccontare.
So che tra poco uscirò, la mia spalla sbatterà contro la spalla di qualche altro umano, in questo mondo super affollato.
E stanno apparentemente tutti bene, in sovrappeso, facendo programmi per il domani.
Chiusi nelle loro stanze riscaldate, guardando distrattamente quello che succede fuori.
Non serve cercare di cambiare il mondo, non serve a nulla impazzire dietro la speranza impossibile che ci sia una stanza riscaldata per tutti.
La consapevolezza è la mia unica virtù.
Sono il bullone mal stretto di un motore che funziona lo stesso perfettamente.
Sorrido, allegro nonostante tutto, il gioco della vita non ha regole, ed è assai improbabile che qualcuno trovi il sistema per stringere questo bullone spanato.
Le radici.
Le radici.
Stavo riflettendo.
Le radici sono la memoria.
Ascoltando una canzone degli anni ottanta sono sceso dai rami come uno scoiattolo, percorso il tronco dell’albero verso il terreno e ho cominciato a scavare circondato da radici fino a trovare un immagine di una piazza e una latteria.
E ragazzi seduti fuori con i motorini parcheggiati e la stessa canzone che usciva da un jukebox.
Sono piantato nel terreno, capace di resistere alle burrasche, grazie ad ogni istante passato che si è trasformato in memoria ed esperienza.
Lo scoiattolo può andare dove vuole, correre e saltare fino all’apice dell’albero, costruire le sue tane su ogni biforcazione di ramo, ma poi quando decide di tornare a terra ha una sola strada da seguire che lo riporterà dove il seme dell’albero fu piantato.
Figlia
Figlia
Forse sarebbe meglio non dirti nulla, fare finta di niente ed aspettare sperando che la tua vita non incontri mai quegli scogli che hanno spaccato il cuore a tuo padre.
Parigi sorride stamattina, sorride perché c’è il sole ed io cammino fianco a fianco con l’unica donna della mia vita.
Tra mercatini di frutta, librerie e caffè.
Lei saltava, ma saltava veramente come un grillo, tra le pietre del marciapiede e l’aria, felice come una bambina.
Esiste la felicità ed io la tengo in tasca.
Devi andare a Parigi, devi camminare sulla salita che porta a Montmartre, poi vai all’ultimo piano della Torre Eiffel, sappi che tuo padre aveva paura, ma cominciava a nevicare, ed anche se la punta della torre traballava io mi concentrai sulla neve e fermai il tempo e la torre.
Rifai la strada e pensa che le mie scarpe calpestarono la stessa strada.
Amerai anche tu le fontane, soprattutto di notte, quando l’acqua è illuminata da mille fari e si può camminare sul bordo rischiando di scivolare in quaranta centimetri d’acqua ghiacciata.
E quando si è così felici non si pensa a Dio.
Solo lo si guarda seduto sul suo trono a contemplare sorridente la sua più geniale invenzione, la felicità.
Bisogna partire sorridenti, non dare soddisfazione ai fustigatori, evitare di gemere dopo ogni frustata, far finta di nulla, impegnarsi a non avere necessità se non si hanno possibilità.
E non credere a nessuno.
Nessuno ne sa più di te.
Nessuno può spiegarti nulla.
Non credere a tuo padre.
Perché tuo padre sono io.
Io non dovrei dirti nulla
non essendo mai riuscito a convincermi di nulla.
Figlia.
Dovrei mettermi da parte, fare come la farfalla che abbandona le uova sulla foglia e se ne vola via a passare da qualche parte le ultime ore della sua vita.
Rilassati e prenditela con calma
Sei ancora giovane
Importa solo la voglia di porti domande, il desiderio di allargare le tue conoscenze, il bisogno di una visione globale, non lasciarsi tentare dai giudizi sommari, capire come ogni pensiero nasconde una cultura, ogni cultura una tradizione, ogni tradizione un motivo.
Lasciare spalancata la porta di casa.
Fare entrare chiunque.
Per poi offrirgli da bere o cacciarlo fuori a calci nel culo.
A volte mi gira la testa e non riesco più a capire cosa mi sta attorno.
Vedo sfuocato.
Mi appoggio a qualcosa. Poi riprendo forza, mi abituo all’ombra e vado avanti.
Ho un bastone che ho raccolto laggiù nel parco.
Un bastone per amico.
Mi ci appoggio.
Gli occhi al cielo, forse pioverà.
Ho una figlia da qualche parte.
Guido Prussia