Lo faccio per amore

Lo faccio per amore.
Lo faccio per amore del mio stomaco.
Lo faccio per amore dei miei piedi che mi chiedono scarpe nuove.
Lo faccio per amore dei miei denti che hanno bisogno di manutenzione.
Lo faccio per amore di Giorgia che mi ama nonostante tutto.
Lo faccio per amore di mia madre che deve continuare a credere che ho un lavoro serio.
Lo faccio per amore di mia figlia che desidera una bicicletta nuova e per la madre di mia figlia che ha bisogno di un assegno mensile per farcela.
Lo faccio per amore di me stesso e per continuare ad avere lo sguardo ad altezza specchio, anche se in quello specchio non mi riconosco.
Lo faccio perché in questo mondo di merda quando provai a fare ciò che sapevo fare trovai qualcuno che sapeva fingere di saperlo fare meglio di me.
Lo faccio calpestando ogni giorno le stelle di Hollywood sul Boulevard dalle nove del mattino alle sei di sera, all’ora di pranzo mi trovi nel ristorante messicano sulla Vine a mangiare qualcosa.
Posso farti una foto?
Fai pure. Ma non chiedermi di togliermi di dosso la mia espressione triste perchè sono in pausa pranzo.
Guido Prussia
Photo di Guido Prussia

La globalizzazione mi fa cagare.

Faccio la cosa piu’ normale al mondo. Lavo i miei vestiti in una laundry che va con le monetine. Eppure ci trovo qualcosa di figo e tutto questo lo devo alla metà della mia vita vissuta in un mondo non globalizzato. Quando le lavanderie a gettoni ti facevano venire in mente l’America.
Ricordate il tempo quando viaggiare significava andare in posti diversi, ricordate il cambio delle monete, la baguette che si trovava in Francia, il Kebab che mangiavi solo in Turchia o il souvlaki che voleva dire essere in Grecia?
Ricordate quando si andava a Londra e si compravano cose che in Italia non trovavi, e quando si andava in Andalusia e si mangiavano le tapas?
A me la globalizzazione fa cagare, un mondo tutto uguale mi fa cagare, mi dispiace per i giovani che non possono capire quanto era bello viaggiare per meravigliarsi di fronte alle differenze degli altri.
Guido Prussia — presso Los Angeles.

Notturno

Camminando giorno e notte cercando acchiappare un cappello prima che finisca di piovere.
Camminando giorno e notte cercando di trovare il mio amore prima che un amore mi trovi.
Poi stremato appoggiarmi sulla schiena dell’albero convinto che sia la mia schiena.
Qualche volta mi chiedo:
Se precipitasse il mondo dove andrebbe a sbattere?
Ci sono deviazioni obbligatorie dovute alla parata di Natale che mi portano a sfiorare un accampamento di barboni, ridono e scherzano tra di loro, come se fossero i soci illustri di un Golf Club che non permette l’ingresso a nessuno che sia meno barbone di loro.
Se avessi una risposta certa la scriverei su un foglio di carta e la terrei con me nel momento in cui ho bisogno di una certezza.
Non ho mai finito un quaderno a scuola, lo cominciavo con le migliori intenzioni, ma poi in un modo o nell’altro riuscivo a rovinarlo, a strappargli una pagina, a macchiarlo, e rimaneva a metà, incompiuto. E incompiuto raggiungeva l’eternità della fine inesistente.
Cenando a casa della rockstar mi sentivo come un bambino che guarda un cucciolo di cane nella vetrina di un negozio di animali.
Con la voglia di portarlo a casa e farlo diventare il mio migliore amico proprio mentre una signora in pelliccia se lo fa incartare per portarselo via.
Sei cosi’ giovane che se penso alla tua pelle e al tuo odore è come se tornassi per le strade del mio primo viaggio da solo, come se dormissi ancora sotto i cespugli di una spiaggia in Grecia, come se ballassi ubriaco con i Clash che cantano London Calling, come se ogni cosa stupida che faccio avesse ancora l’alibi della gioventù.
Ma se ti dicessi guardandoti negli occhi, che ancora non ho capito come faccia uno sguardo a farmi felice o a farmi piangere, tu che sei cosi giovane ameresti lo stesso un uomo che non sa darti risposte e che quando scrive non è capace di dare un senso a ciò che scrive per non contraddire se stesso.
Guido Prussia
Foto di Guido Prussia

Magro era magro…

Magro era magro ma le gambe erano forti e a scuola saltava più in alto di tutti, gli piaceva quando nevicava grosso, e si emozionavo all’arrivo del Natale.
Aveva un pupazzo che raffigurava l’uomo ragno, lo perse e lo cercò per anni, forse lo cerca ancora.
In campagna c’era una piccola casa di pietra all’interno della quale viveva uno gnomo che lasciava ogni notte un cioccolatino sotto il cuscino.
A carnevale si vestiva da indiano americano, quando andava nella fattoria di Toni gli piaceva salire in cima alle balle di fieno e poi saltare giù.
Saliva sugli alberi di ciliegie per mangiarne quanto più ne poteva, finite le ciliegie gli toccavano le amarene che gli piacevano di meno, ma era sempre meglio di niente
Quando suo Nonno si avvicinava a casa suonava il clacson, dal paese gli portava un pacchetto di gomme da masticare e dio sa quanto aspettava quelle gomme.
C’era un albero con un ramo sporgente al quale poteva appendersi con le gambe e dondolare a testa in giù.
Non sapeva cosa avrebbe fatto da grande, ma non vedeva l’ora che arrivasse quell’essere grande, il tempo scorreva cosi’ lento da assomigliare a una prigione.
Aveva una vocina da ragazzina ed ogni volta che rispondeva al telefono dall’altra parte qualcuno gli diceva: Ciao bambina c’è tua mamma?
E lui rispondeva: “Sono un bambino. E mia mamma non c’è.”
Aveva paura, ma poi anche la paura diventa un abitudine e cominciò a pensare che era cosi’ per tutti i bambini del mondo.
Per quanto minuscolo sapeva che non c’era un nascondiglio sicuro, prima o poi l’avrebbero trovato e sarebbe stato peggio.
Ed è cosi’ che si impara che finisce.
Finisce. Tieni duro che finisce.
Alla fine i buoni vincono sempre.
Alla fine.
Era solo all’inizio e gia’ cercava riparo nella certezza di una fine.
G.P.

Il cane guarda alla luna

Il cane guarda alla luna
come a un amica a cui confessare
il suo sogno di fuggire e dimenticare.
Fuggire dal dolore di non essere lupo
dalla paura del buio
dimenticare di aver bisogno di un padrone per mangiare
e di una corda per camminare.
E la luna cortese ricambia con lo sguardo di una madre
che spiega al figlio che non tutto è come appare
a volte avere un padrone è un buon affare
ti permette di vivere senza avere niente a cui pensare.
Il cane guarda alla luna
e ha lo sguardo triste del bambino
a cui la madre ha appena detto
che c’è sempre un recinto
dove c’è un giardino.

Tre folletti

Tre folletti danzano sul bordo della strada. Un quarto folletto suona uno strumento simile all’ocarina e batte il piede su un pezzo di legno per dare il tempo.
La strada attraversa campi in un susseguirsi di salite e discese, in questo immenso lenzuolo verde si distingue un enorme albero dal tronco enorme e dalla chioma perfettamente curata.
Tutto merito di Calengol il parrucchiere degli alberi, che avendo un solo cliente in tutta la contea si da un gran daffare per farlo apparire sempre perfetto.
A non sopportare la ciclica potatura è Anastasia, tartaruga amante dell’ombra e costretta a spostarsi ogni qualvolta il ridursi della chioma la fa tornare fastidiosamente nel mirino di zio sole.
In tutta questa tranquillità a volte irrompe imperioso Kon che sembra godere del suo potere di scompigliare i rami appena riordinati.
E in questo angolo di mondo, che nessuna cartina riporta per timidezza, c’è una casetta dove abita Iside.
Iside passa tutto il giorno a stampare su piccoli pezzetti di carta le risposte a ogni perchè.
Stormi di nuvole hanno il compito di ricevere tutte le risposte per poi dirigersi verso la terra del Dubbio.
Una volta sull’obiettivo le nuvole raggiungono il punto di rugiada e le risposte cadono sulla testa dei Dubbiosi che avendo l’abitudine di usare ombrelli rimangono all’asciutto.
Solo una bambina, dal nome improponibile di “piccolo torrente che gira intorno ad un sasso” si rifiuta di usare l’ombrello ed ogni volta che piove scopre qualcosa di nuovo.
Prova a raccontare ciò che ha scoperto a scuola, ma a scuola dicono che è matta, prova a dirlo ai genitori, ma i genitori dicono che è stramba, prova a dirlo alle sue amichette e le sue amichette smettono di salutarla.
Una notte di Novembre decide di confidarsi con Dio all’interno di un abbazia avvolta dalla nebbia e Dio la guarda severa rimanendo in silenzio.
La bambina non sapendo che farsene di tutte quelle risposte che nessuno voleva ascoltare mette due pezzi di pane,una bottiglia d’acqua e una coperta dentro una valigia e se ne va.
Anni dopo alla porta di Iside bussa una ragazza.
“Ci hai messo un sacco di tempo ad arrivare.”
“Cosa devo fare?” chiede la ragazza.
“Scrivi tutte le risposte che sai e mettile sul davanzale, non devi fare altro, poi arriveranno le nuvole a prenderle.”
“Ma Iside, laggiù usano tutti l’ombrello.”
“A noi questo non deve interessare, il nostro compito è di concedere il beneficio della verità. Alle nuvole il compito di portarle a destinazione. Ai dubbiosi non rimane che il compito di dare un senso al nostro lavoro continuando ad usare gli ombrelli.”
Tre folletti danzano sul bordo della strada. Un quarto folletto suona uno strumento simile all’ocarina e batte il piede su un pezzo di legno per dare il tempo.
Guido Prussia
Photo by Guido Prussia

Una storia vera

C’erano tuoni lassu’ sulla montagna e un asino che lasciato il riparo dell’albero si è messo immobile in mezzo alla vallata.
Il vecchio sul portico guarda i tuoni e dice fra se : A sei anni ho imparato a farmi le sigarette, mi faceva sentire grande, mica le fumavo le rollavo e basta.”
La ragazza dondola sulla sedia di fronte al camino, non stacca lo sguardo dal fuoco.
Io osservavo la scena pensando che se fosse un film non avrebbe avuto titoli di testa.
La vita ci ha portato in luoghi distanti, ci ha fatto incontrare persone di cui non era possibile sospettarne l’esistenza.
Incrocio di fili di destini diversi.
Perche’ questa premessa?
Perche’ un giorno fermandomi in negozio dopo l’orario di chiusura ho cominciato a pensare a quale di tutte le persone che conoscevo avrei potuto raccontare la storia di cio’ accadde in quella notte di tuoni.
Chi avrebbe potuto conoscere il segreto del vecchio sul portico, chi avrebbe capito la storia della ragazza di fronte al fuoco, e chi avrebbe perso del tempo per chiedersi come mai quell’uomo che osservava stava piangendo.
Ho ascoltato una canzone di Bob Dylan, ho contato i soldi incassati, e intanto pensavo….
A chi raccontare quella storia?
A saracinesche abbassate ho capito che nessuno avrebbe potuto conoscere il segreto di quella notte.
Ogni storia appartiene a chi l’ha vissuta.
Allora mi sono messo al telefono.
Non potevo chiamare il vecchio sul portico, lui era morto da tempo.
Chiamai la ragazza di fronte al fuoco.
Le dissi che mi era tornata in mente l’immagine di lei che dondolava sulla sedia.
Lei mi chiese che fine aveva fatto il vecchio.
E’ morto, le dissi.
Rimase in silenzio, si sentiva che piangeva.
Rimasi in silenzio anche io.
Dopo qualche minuto chiede: Tu come stai?
Tranquillo…risposi.
Ti ricordi l’asino? Mi chiese.
Certo. Risposi.
Hai raccontato a qualcuno il segreto?
No. Le dissi.
Prima o poi ci dobbiamo rivedere.
Quando vuoi.
Ti devo restituire una cosa.
Lo so.
Mi ha fatto piacere risentirti.
Anche a me.
Ciao.
Ciao.
Di nuovo solo.
Avrei cercato le chiavi.
Il guinzaglio del cane.
Ed ero pronto per tornare a casa.
Solo che mi sentivo solo.
Si…due parole uguali sulla stessa riga.
SOLO che mi sentivo SOLO.
Da ogni storia si impara qualcosa.
Da tutte le storie si impara che quando si cerca di ritrovarle non si ritrova altro che la propria solitudine di fronte ai ricordi.
Per questo non vi diro’ mai il segreto di quella notte .
Se qualcuno lo scoprisse probabilmente sarebbe tentato di amarmi e io non saprei come difendermi.
Guido Prussia
Photo by Guido Prussia

Mio padre mi diceva…

Mio padre mi diceva: “O fai il dentista o finirai sotto un ponte a fare il barbone.”
Mi faceva paura la mancanza di altre alternative e non è stato facile decidere per il ponte.
Forse mi ha convinto il ricordo di una vacanza da ragazzo, le notti passate a dormire sulla spiaggia, la leggerezza del non possedere.
Poi la vita ha spianato altre strade, ed oggi non sono dentista e non sono più barbone. Non credete mai a chi non vi da alternative.
Ma se torno ai miei diciassette anni mi sorprendo del coraggio o dell’incoscienza che la gioventù ti regala.
Dormivo sui treni, sui tram, a volta forzavo la portiera di un auto e mi infilavo a dormire nei sedili posteriori, se non pioveva e c’era caldo dormivo nei giardini di Corso Italia sotto una palma.
Sono stato il barbone più borghese di Genova.
E non c’era paura se non quella di tornare a casa.
Cosa darei per riprovare l’emozione di una fuga……..
La cattiveria non aveva ancora una spiegazione e nemmeno la spietata logica del profitto, le partite a pallone le vincevano i migliori, le partite a carte le vincevano i più fortunati, i più belli avevano le ragazze migliori, i più coraggiosi erano i capibranco, i più studiosi avevano i voti piu’ alti.
Non conoscevo ancora la parola “paraculati” e non esistevano i “senza scrupoli”, c’era un perchè accettabile di fronte ad ogni risultato, c’era il gusto di seguire i migliori per impararne la tecnica e comprenderne la forza.
Poi tutto cambia, da un giorno all’altro, dal telegiornale del mattino a quello della sera, quando improvvisamente la continua visione d’ingiustizie ti porta a capire che l’ingiustizia esiste, regna ed uccide.
Non è un dolore personale, non è una cosa privata, non riguardava me o i miei amici, riguarda il mondo.
Ferisce lo sguardo di chi non ha da mangiare, uccide i sogni la notizia di un uomo innocente che è morto in galera, ammazza la poesia lo sguardo di quel direttore che sorride ad ogni notizia di strage, non ci si crede quando il “male” improvvisamente diventa un vento capace di spazzare via tutte le foglie che coprivano un terreno di ideali e di sogni.
Era quello il terreno su cui camminavo.
No, non è tutto perduto, ma è necessario armarsi, vestirsi d’acciaio, essere pronti alla battaglia, conoscere le tattiche del nemico, è così, non ci avremmo mai pensato, ma esiste un nemico anche se non si è mai dichiarata una guerra.
Oggi, guidando, ascoltando una musica che annienta i rumori, mi sembra di essere immerso in un acquario, vedo la gente camminare come al rallentatore, ne intuisco i pensieri e mi stupisco che ci sia spazio abbastanza per contenere tutte le idee, i sogni, le attese, le speranze, i dolori, le delusioni ed i progetti.
C’è un vecchio che zoppica, ha la faccia triste ed un sacchetto della spesa nella mano sinistra, attraversa la strada alzando la mano destra per fermare le macchine.
Non è sulle strisce, ma che importa, alza la mano e gli automobilisti frenano, l’importante è arrivare dall’altra parte della strada e lui arriva.
Mi domando quali motivazioni spingano un uomo in attesa della fine ad allontanare la fine, perchè non sopraggiunge il desiderio di dire addio prima che l’addio decida di imporsi.
Perchè sopportare ancora fatiche, compromessi, code alla posta,perchè ancora mangiare, bere, dormire, rialzarsi e ritornare a dormire.
Perchè si è così attaccati alla vita quando la vita sembra un interminabile titolo di coda.
La risposta è un mistero, la tenerezza è una realtà travolgente, è che l’uomo ha il coraggio di sopravvivere ma non il coraggio di morire.
La mia macchina è un acquario in un acquario, ed io sono un pesce che guarda altri pesci, alzo gli occhi al cielo e vedo la mano di dio che getta due scaglie di cibo, ma oggi non ho fame e non gli darò la soddisfazione di osservarmi mentre divoro la sua elemosina.
Si fotta.
Guido Prussia — presso Hobson Beach, Ventura.

Incontriamoci a metà strada.

Incontriamoci a metà strada. Mi hai detto.
Basta intendersi su dove sia la metà strada.
Potrebbe essere un passo in avanti o mille chilometri verso nord.
E se la metà strada non fosse un luogo immobile ma un punto in eterno movimento potrei passare il resto della mia vita a cercarti in un luogo liquido che basta inclinare la mappa per vederlo scivolare come fosse una goccia d’acqua sul vetro.
Ti faccio una proposta.
Decidi tu dove sia la metà della strada, sottolinea il punto con una penna e mandami una foto della mappa e io mi faro’ trovare li.
Passarono gli anni e quella mappa non arrivo’ mai, mi hanno detto che ti vedevano giocare con una matita e una gomma da cancellare chiedendo al tempo di fermarsi un attimo per poterlo piegare in due e sapere dove andare.
Incontriamoci a metà strada. Mi avevi detto.
Per me fa lo stesso dovunque si vada.
Per te bisognava cercare.
Ma metà strada è ovunque, e ovunque non si farà mai trovare.

Guido Prussia
Photo by Guido Prussia