Seduto sul treno regionale Parma-Milano con il mio cane.
Vicino a me si siede una signora.
Gioca qualche minuto col cane. Poi tira fuori dalla borsa il portafoglio, prende tre euro e fa per darmeli.
“Li usi per mangiare qualcosa e per dare da mangiare al suo meraviglioso cagnolino.”
Io la guardo imbarazzato e le dico che è molto gentile ma non è il caso.
Poi con moto d’orgoglio le dico:
“Non si lasci ingannare dalle apparenze.”
“E’ sicuro di non volerli?”
“Si Signora sono sicuro.”
E per la prima volta in via mia sono stato visto come un uomo che ha bisogno dell’elemosina.
Mi sono guardato cercando di capire cosa potesse dare questa impressione.
Avevo scarpe strane con frange stile indiano, i jeans avevano un buco sulle ginocchia e la giacca militare non era il massimo della pulizia.
Ma non poteva essere questo a dare l’impressione che avessi bisogno di aiuto per mangiare.
Forse era la barba, lo sguardo, o magari la tristezza dei miei occhi che riflettono ancora la perdita della mia baby.
Magari tutte queste cose insieme hanno fatto di me un umano apparentemente senza casa che vive viaggiando sui treni regionali in compagnia di un barboncino spettinato.
Avrei dovuto chiederlo a lei, alla signora, prima che scendesse.
Avrei dovuto chiederle come aveva fatto a capirlo.
Di una cosa sono sempre andato fiero, ed è la mia capacità di nascondermi.
Smascherato sono tornato a casa con la vergogna di chi camminando nudo non trova più angoli dietro i quali nascondersi.
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Nessun cazzo è duro come la vita.

Ora
Ora.
Cerco su you tube qualcuno che mi spieghi il perchè.
Trovo maestri di vita introdotti da inni alla gioia, ex campioni olimpionici di kung-fu diventati maestri del tao, medium e spiritisti che riportano le saggezza dei morti e poi uno di quelli che da le motivazioni giuste, vorrebbe convincermi che si può attraversare un oceano a nuoto.
Basta solo crederci.
Questo è il problema.
Io non ci credo.
Non credo in nulla.
Nemmeno a me stesso.
Non riesco a trattenermi dal guardarmi allo specchio e chiedermi ma tu chi cazzo sei.
Guido mi hai lasciato senza un euro, hai passato una vita a cazzeggiare, non hai mai imparato a venderti ma soprattutto non hai mai imparato a non romperti i coglioni di tutto.
Ho lasciato alle mie spalle luoghi e amori cercando il luogo perfetto e l’amore perfetto.
Non so se avete presente quella sensazione che ti prende dopo aver fatto l’amore che ti fa pensare:
Tutto qui??!!!
Tutto sto casino per un orgasmo di sette secondi di cui scientificamente è provato che solo 2 siano di un intensità tale da giustificare lo sforzo.
Il fine è la riproduzione, i due secondi sono la carota messa davanti al coniglio per farlo correre, l’amore è l’accessorio di lusso che gli umani hanno inventato per sentirsi meno stupidi.
Tutto questo cinismo mi corrode.
Combatto la corrosione pensando all’adolescenza.
Tempi in cui tutto era ribaltato.
Il sesso era l’accessorio, l’amore era la sostanza.
Ai tempi ci credevo.
Come ho creduto alle anime fragili, alle mani sudate, ai vetri appannati, alle carezze che ti facevano toccare un universo, l’universo che era lei con la sua t-shirt bianca, i suoi jeans e i suoi piedi scalzi tenuti in grembo ed accarezzati come si accarezza il desiderio che non si è mai voluto dire per la paura di scoprire che non si sarebbe mai realizzato.
Nevicava raramente a Genova.
Ma il fatto che a volte accadesse rendeva quel fatto un evento capace di farmi credere ai miracoli.
Quando accadeva uscivo di casa e camminavo per ore in direzione del mare.
C’è qualcosa di mistico in una spiaggia innevata.
Nulla mi aveva portato cosi’ vicino a credere in Dio quanto la visione di Boccadasse coperta di neve.
E quando la neve si scioglieva Dio dimostrava di essere luce e fango, esattamente come tutti gli umani.
Ora.
Il gatto guarda fuori dalla finestra e fuori non c’è nessuno.
Sta immobile fissando il vuoto come se nel vuoto ci fosse qualcosa capace di attirare l’attenzione.
Se avessi i suoi occhi forse riempirei la mia mancanza di qualcosa, dando un senso al nulla.
Fondamentalmente…
Amo la parola “fondamentalmente”.
Fondamentalmente non ho mai imparato a conoscermi e continuo a fidarmi di me stesso nella speranza di non deludermi.
Almeno io.
Buona domenica.
Ho un milione di difetti
Ho un milione di difetti.
Ne ho così tanti che se i miei difetti fossero stelle tu non vedresti l’ora che arrivi la notte per poter osservare il cielo.
Ho voglia di raccontare storie anche a chi non ha nessuna voglia di ascoltarle.
Sono vecchio e non me ne sono accorto, ho un ginocchio che ogni tanto cede e quando cede io gli parlo e lo convinco a non ammutinarsi in cambio del ricordo di quando si sbucciò nel tentativo di catturare un granchio su uno scoglio scivoloso.
Lui ride e non cede più.
Per un po’.
Non mi aspetto più che mi si ringrazi, ma ho la necessità di condividere i miei sogni e i miei progetti e questo mi ha sempre fottuto.
Gli umani sono gente strana.
Sono sempre convinti di avere ragione, soprattutto quando hanno torto.
Mi sono sempre sentito diverso perché cerco i miei sbagli negli errori degli altri.
Se potessi esaudire un desiderio saprei cosa chiedere.
Vorrei togliermi quell’odioso difetto di sopravvalutare gli umani.
Ho la necessità di comperare del tabacco, ma devo aspettare martedì prossimo.
Prendo tempo per sciogliere la delusione.
Ma devo trovare un ennesima via di fuga e riprendere il cammino da solo.
Cosi’ il tabacco me lo compro quando cazzo voglio.
Inconsapevole verità
C’è un inconsapevole verita’ nascosta nella scaletta di un telegiornale.
La verità che tutto e’ relativo.
Si parte con un massacro e si finisce con i gol, passando attraverso la telepromozione di un materasso e la richiesta di aiuto per bambini che stanno morendo di fame.
E tutto accade in maniera naturale, come un orchestra che passa da un allegro a un adagio, con un direttore che gestisce a colpi di bacchetta tragedia e farsa, sport e spettacolo, morti e goleador.
Noi siamo spettatori di uno show, abbiamo poltrone più’ o meno comode e più o meno vicine al palco, ma ci sentiamo sempre estranei a ciò che accade sul palcoscenico.
Non saremo mai vittime e non saremo mai eroi.
Ma sempre e soltanto auditori distratti delle solite storie che l’uomo costruisce da millenni.
Odio e amore, guerra e pace, vittime e carnefici.
Un canovaccio cosi’ usato da apparire come una corda sfilacciata pronta a spezzarsi.
Poi improvvisamente appare un cane, un cane poliziotto, ucciso da dei coglioni terroristi.
Il cane viene trasportato fuori dal museo, senza vita, su una barella sporca del suo sangue.
Per un attimo si smette di raccontare la storia degli uomini e si racconta la storia di un cane.
E mi commuovo.
C’è un inconsapevole verita’ nascosta nella scaletta di un telegiornale.
Tutto e’ relativo quando si parla di uomini, ma tutto e’ così assoluto quando la vittima e’ un povero animale che dietro una maschera da poliziotto cela l’anima selvaggia della natura massacrata dall’arroganza e della stupidita’ umana.
Cerco foto in bianco e nero
Cerco foto in bianco e nero e le coloro.
Sono soprattutto foto che riproducono nativi americani.
Non sapendo quali siano stati i reali colori lascio viaggiare l’immaginazione, e ad ogni colore aggiunto sembra che la fotografia prenda vita.
Non riesco a non pensare all’attimo fotografato senza lasciarmi coinvolgere dalla fantasia che potendo viaggiare nel tempo e nello spazio potrei essere li ad osservare il momento nel momento in cui accade.
Colorare quell’immagine mi aiuta a darmi la certezza che la morte uccide ciò che sarà ma non può nulla con ciò che è stato.
formiche ai piedi
formiche ai piedi, ginnastica mattutina la stessa che facevo all’ora di ginnastica alle medie, il gatto dov’è, faccio miao e lui arriva e si struscia, cinque secondi poi se ne va, trovare le calze, le mutande, i jeans e una maglietta, andare in bagno e uscire di corsa per evitare che il cane faccia la pipì in casa, caffè nel bar di fronte a casa, l’aiuola dove la baby ama cagare, tornare a casa, mettersi alla scrivania, guardare fuori dalla finestra le persiane della casa di fronte, chiuse da una settimana, accendere il computer, ritrovarsi davanti le foto di un viaggio dove c’era lei e chiedersi dove sia lei ora, chiedersi come mai la felicità non sia capace di imprigionare il tempo, sembra che adori durare poco per sentirsi rara, la giacca appoggiata su un passamano, hard disk sparsi in giro, la memoria che si fa solida e la nostalgia che si fa liquida, scorre come un fiume dalla sua fonte fino al minuscolo mare del presente, cosi’ minuscolo che le onde si infrangono su se stesse, vorrei tornare indietro, chiedere alla maestra di insegnarmi come si fa a rendere felice una donna, una sola, non le mille con cui ho cominciato a costruire scale interrompendo il lavoro al primo gradino, sembra facile oggi essere cinici, prendere per il culo l’amore come fosse un gioco per rincoglioniti, sembra facile vedersi fuori da questi giochi e dire con espressione dura che non sopporti quelli che camminano mano nella mano, e col culo appoggiato su questa seggiola di legno aver voglia di scrivere la più bella storia d’amore che sia mai stata scritta e ritrovarsi a non scrivere un cazzo, sembra facile ma è un impresa trovare una scusa alla solitudine, pensare che sia da eroi affrontare la vita da soli facendo finta di non sentire quella voce che ti dice che non è da eroi ma è da coglioni, devo dare la colazione ai cani, aprire la finestra al gatto che ama guardare fuori e poi mettermi a lavorare, non consumare il giorno senza averlo usato, ci sono storie che nessuno ha mai letto, ma non per questo non sono mai avvenute… la donna che ho amato di più è quella che non ho mai incontrato…
Ho poche certezze nella vita
Ho poche certezze nella vita:
Tra queste la certezza che la femmina sia migliore del maschio, non parlo solo degli umani ma di tutti gli esseri viventi in cui esistano due sessi. Per questo spesso scrivo al femminile, per il piacere di provare a sentirmi migliore.
Questo racconto è di qualche mese fa…
Ti scrivo per dirti che nonostante il caldo che fa fuori dentro fa così freddo che sul cuore è spuntato un gelone viola.
Sei stato perfetto nel scegliermi per mettere alla prova la tua abilità di cacciatore.
Hai scelto la ragazza più stupida.
Sono cosi’ stupida che ti sarai meravigliato di come fosse facile puntare e colpirmi.
Chissà cosa hai pensato quando hai visto la tua preda avvicinarsi e inchinare la testa come per chiedere una carezza.
Certo non è divertente per un cacciatore poter colpire senza mirare, ma non per questo mi hai lasciata andare.
Mi hai preso quasi senza guardare, come si segna un gol a porta vuota, come si salta da uno scalino, come si morde un pezzo di pane.
Mi hai amata senza amore con lo sguardo che guardava altrove.
Ho passato la notte cercando di trovare un modo per ucciderti.
Più ci provavo più mi vedevo inquadrata dai tuoi occhiali che ingrandivano i tuoi occhi facendoli sembrare sinceri.
Togliti quel cazzo di occhiali.
Mostra quei due occhietti da topo a caccia di formaggio.
E a ripensarci come ho fatto a credere di poter essere amata da un uomo che ha i polpacci glabri per avere sempre indossato calzini che arrivano fino alle ginocchia?
Come ho fatto a credere che un uomo che bestemmia per un sorpasso potesse farmi felice?
Come ho fatto ad essere cosi’ stupida da illudermi di poter essere capita da chi ha una libreria vuota dove sopravvive solo un libro che spiega come diventare in una settimana un uomo di successo?
Ho amato il protagonista di un film che mi ero scritta da sola tralasciando il finale.
E il finale lo scrivo adesso.
Il finale è che il cacciatore è rimasto senza cartucce e la preda si avvicina per vederlo imprecare e scoprire finalmente ciò che è.
Un coglione che ama troppo se stesso per avere il coraggio di amare una donna.
Non soffro per te, soffro per me, per la mia incapacità di resistere alla tentazione di farmi accarezzare.
Tu non accarezzi, tu graffi nella stupida illusione di lasciare un segno da raccontare.
Ti è andata male.
Il segno se ne è andato.
Devi solo sparire.
Sparire per sempre.
E siccome so già che tornerai ti dico già da adesso di non farlo.
Saresti patetico e non potrei resistere alla tentazione di umiliarti.
Fine.
Se io oggi tornassi bambino
Se io oggi tornassi bambino cercherei nascondigli sicuri
metterei meno fretta al tempo e verrei a cercarti all’uscita dell’asilo per vederti bambina.
Direi a mio padre che a volte si sbagliano anche i grandi, consiglierei a mio fratello di picchiarmi di meno perché anche i fratelli più piccoli prima o poi crescono e sapendo quanto mi sarebbe mancato passerei più tempo con mio nonno e le sue storie di guerra,
Se io oggi tornassi bambino farei meno domande e crederei meno alle risposte, tornerei a scambiare opinioni con un orsetto di peluche che sapeva riempire i suoi silenzi di mille significati e prima di dormire non direi più preghiere ma darei l’addio al giorno passato come fosse un amico che non tornerà mai più.
E nel dormiveglia tornerei a succhiare il bordo della copertina come se fosse succhiare vita.
Con quel sapore di pulito che da grande non senti più.
Il cinismo è un ragno
Il cinismo è un ragno che mi cammina sul braccio e con il quale ho fatto amicizia.
Il patto è che lui non mi morda e io non lo uccida.
A volte scambiamo due parole sulla vita e ci troviamo sempre d’accordo.
Il ragno mi diceva che la cosa più divertente che gli umani abbiano inventato è l’amore.
Un invenzione che ha permesso di fare cose che senza amore non si sarebbero mai fatte.
Si fa la guerra per amore della propria patria.
Si uccide per amore del proprio dio.
Diventi padrone e schiavo per amore.
Per amore disgusti la libertà.
Poi il ragnetto appoggia la sua bocca al mio orecchio e mi sussurra:
dfjskhurllldkfhaksrrsdf dgahfgkasakl irjfifjlakdfdkkd
Che nella lingua degli Aracnidi significa:
L’amore è una puttanata colossale che voi esseri viventi dotati solo di due misere gambe usate per sentirvi ancora piu’ instabili e quindi meritevoli di un appoggio esterno.
Noi ragni, che di gambe ne abbiamo otto non abbiamo bisogno di questo genere di cazzate.
Poi scherzando appoggia il suo chelichero sul mio lobo.
Lo guardo incazzato.
“Attento stronzetto che se mi mordi ti schiaccio come se fossi un ragno.”
“Ma io sono un ragno” Risponde allontanandosi.
Mentre si addormenta tra le pieghe della giacca io guido in direzione nord, attorno c’è un cielo grigio sporcato dal fumo di una ciminiera e un camion che sembra trasportare quintali di malinconia.
Lo sveglio dandogli una ditata sulla testa.
“Che vuoi?” Mi dice.
“Ascolta ragnetto, mi spieghi perchè non credo in nulla?”
“E tu mi svegli per chiedermi questa puttanata?”
“Tu rispondimi.”
Si stropiccia i suoi quattro paia di occhi poi guardandomi con solo tre occhi, mentre gli altri cinque si distraggono ad osservare il tergicristallo mi risponde:
“Tu non credi in nulla perché nulla di ciò che vogliono farti credere è credibile.”
Aspetta. Fammi pensare.
Cazzo. E’ proprio cosi’.
Nulla di cio’ che vogliono farmi credere è credibile.
E come Antistene e Diogene di Sinope sono un randagio che ha smesso di credere alle grandi illusioni dell’umanità e disprezzo i poeti che rantolano parole d’amore, mi fanno pena le donne che elemosinano la compagnia eterna di un uomo e non sanno apprezzare le brevi soste dei marinai.
Ho il vomito di fronte alle coppie di cui una è bastone e l’altro carota, in una commedia delle falsità dove il marito recita la sua parte nel teatro di casa ed è se stesso nella camera da letto di un altra donna.
Il cinismo è un ragno che camminando tra una manica e un bottone ha costruito una ragnatela sul mio cuore e ora guarda orgoglioso verso l’orizzonte in attesa di una mosca che attratta dalla mia solitudine gli servi la cena.