A vestirmi ci metto 20 secondi.
Raccolgo i calzoni buttati per terra la sera prima, prendo la prima shirt che capita sotto tiro, i calzini sono sparsi sul pavimento, le scarpe di solito stanno alla base del letto.
E tu dici che io assomiglio a quel coglione che sembra vestito come un cazzo di damerino con le calze del colore della giacca, la camicia di seta e un ciuffo da coglione che sembra fare da paravento a occhi da gufo.
Ci vuole rispetto.
La mia auto ha 350.000 chilometri e non ho i soldi per cambiarla, controllo il prezzo dell’acqua minerale e aspetto che il cibo vada sotto scadenza per avere il 50% di sconto.
Il bello di tutto questo è che non è una circostanza.
Questo sono io.
Questo è quello che voglio essere.
Non me ne frega un cazzo di guidare una macchina di quelle che le fighe si bagnano a vederle, non me ne frega di avere una bella casa, non so distinguere uno champagne da uno spumante, il mio piatto preferito è il panino al salame, e quando mi scopi annusi il mio odore e non un insieme di olii essenziali preparati da un esperto mistificatore che mischia fragranze e poi le griffa.
Non potrei mai essere come quella massa di coglioni che amano travestirsi con tutte le maschere che il nostro fantastico mondo occidentale offre a chi vuole nascondersi.
Ho soddisfazioni impagabili per questo mio modo di essere.
Quando qualcuna mi vuole, mi cerca e mi ama so per certo che ama me.
Non avete idea di che piacere sia essere amati per ciò che si è.
E’ una di quello cose che ti fa pensare, guardandoti allo specchio, che sei felice di essere come sei e non cambieresti nulla di te.
Tutto merito di quelle donne meravigliose che hanno capito che tra i pavoni scopa di più quello che fa la ruota più larga ma tra gli umani se vuoi essere amata davvero devi trovare chi la ruota non ha ne voglia ne bisogno di farla.
Mese: Febbraio 2020
Me l’avessero detto che in Mississippi nevicava.
Me l’avessero detto che in Mississippi nevicava.
Io convinto che andando verso Sud avrei trovato il sole.
E invece neve, sempre neve fino alle porte di New Orleans.
Sotto la giacca tenevo giornali, la carta forniva un ulteriore protezione contro il freddo.
Avevo due paia di guanti che cambiavo ad intervalli di un ora.
Ghiacciava uno e mettevo l’altro.
Nonostante questo l’adrenalina del viaggio mi portava a combattere le difficoltà con la gioia di chi sa che ogni sera ha un motel diverso e una città diversa che lo aspetta.
Non sono il tipo che glorifica il viaggio come fosse una specie di missione che ci rende migliori e più fighi, per me il viaggio è sempre stato solo una fuga dall’abitudine.
Trovo molto più eroici le persone che riescono a sopportare la quotidianità per portare avanti dignitosamente una famiglia e dare un futuro ai loro figli.
Noi cosiddetti viaggiatori siamo solo dei cazzoni annoiati che per via di qualche privilegio, intuizione o talento abbiamo la possibilità di portare il nostro culo in giro per il mondo fuggendo la noia cambiando ogni giorno arredamento.
Sacrificando la possibilità di avere famiglia figli e amici.
Non ho mai sopportato il genere di viaggiatore “santone”, quello che potendo permettersi di viaggiare pretende di saperne di più di chi “sta fermo”.
Amo il viaggiatore modesto che dovunque vada sa che nessun posto è straniero per chi ci vive e in qualsiasi posto si sente cittadino di quel luogo.
Non fatevi fottere dagli stronzi che col culo sulla spiaggia di Bali pretendono di insegnarvi qualcosa.
C’è molto più coraggio nel sopravvivere alla quotidianità che nel fingersi selvaggi illuminati che portano il loro culo in giro per il mondo.
Non cerco l’amore.
Non cerco l’amore.
Cerco la tenerezza di uno sguardo che si sofferma sulla ferita.
Me ne fotto dell’amore.
Cerco la voglia di costruire un giardino con la voglia di passare del tempo insieme nell’aspettare che le piante crescano.
Giuratevi voi l’amore.
Io cerco quel pensiero che quando ti addormenti le nostre mani e i nostri piedi continuano a parlarsi di cose segrete..
Ubriacatevi d’amore.
Io cerco lo sguardo che rivela il pensiero, le rughe che raccontano una storia e il coraggio di lasciare aperta la gabbia perché hai capito che ringhio per difendermi ma non ho mai imparato a mordere.
Si, vi lascio tutto l’amore di cui siete capaci.
Io voglio ascoltare la tua storia e fare di ogni lacrima una lanterna da appendere in quel bosco dove da bambina hai scoperto la paura del buio.
Non cerco l’amore.
Cerco la donna che dopo aver detto mille volte ti amo ha scoperto che l’amore non c’entra un cazzo, quello che c’entra è la coalizione di due anime che insieme formano uno scudo invincibile contro il dolore di vivere.
Vaffanculo l’amore.
La potenza del pensiero
Mi sono scelto chi mi legge
Mi sono scelto chi mi legge.
Voi non lo sapete ma siete il risultato di una selezione naturale.
Ho eliminato vagonate di stronzi, tutti quelli che davano consigli stupidi, psicanalisti improvvisati e amanti della grammatica perfetta.
Siete rimasti voi.
Ad alcuni piace tutto quello che scrivo persino le stronzate.
Altri sono più critici ma ogni tanto riesco a colpirli nel cuore.
La maggior parte di voi rimane in silenzio, nascosta, mi usa come passatempo magari al cesso mentre sta cagando.
Ma siete le persone da cui mi piace essere letto.
Fondamentalmente ogni volta che scrivo qualsiasi cosa io lo faccio sperando che qualcuno di voi lo legga.
Non è narcisismo ma il gusto infantile di mostrare un disegno al maestro sperando che mi gratifichi con una carezza.
Non siete molti, ma siete i migliori, i migliori per me.
Non avendo mai avuto la necessità di convincere nessuno preferisco essere letto da chi non ha bisogno di essere convinto di nulla.
Diciamo che vi ho scelto semplicemente perchè riconosco in voi l’appartenenza alla stessa tribù a cui appartengo io.
Il nome della tribù non lo sappiamo, ma sappiamo con certezza che nella nostra tribù non entrano spocchiosi fighettini e tantomeno fighe di legno, nella nostra tribù non c’è posto per chi si allunga il cazzo mostrando il suo reddito, e tantomeno vi troverete ipocriti progressisti con il complesso di superiorità.
Nella nostra tribù siamo tutta gente normale, casini da affrontare, bollette da pagare e sopravvivenza da guadagnare giorno per giorno così come fa l’animale selvatico nella foresta dove oggi si mangia e domani chissà.
Credetemi, forse non ci avete mai fatto caso, ma io ho scelto da chi farmi leggere e non importa quanti siete.
Quello che conta è che ciò che scrivo sia letto da gente che stimo e non da una massa di stronzi addomesticati.
Buonanotte gente.
Treno Regionale Parma-Milano
Seduto sul treno regionale Parma-Milano con il mio cane.
Vicino a me si siede una signora.
Gioca qualche minuto col cane. Poi tira fuori dalla borsa il portafoglio, prende tre euro e fa per darmeli.
“Li usi per mangiare qualcosa e per dare da mangiare al suo meraviglioso cagnolino.”
Io la guardo imbarazzato e le dico che è molto gentile ma non è il caso.
Poi con moto d’orgoglio le dico:
“Non si lasci ingannare dalle apparenze.”
“E’ sicuro di non volerli?”
“Si Signora sono sicuro.”
E per la prima volta in via mia sono stato visto come un uomo che ha bisogno dell’elemosina.
Mi sono guardato cercando di capire cosa potesse dare questa impressione.
Avevo scarpe strane con frange stile indiano, i jeans avevano un buco sulle ginocchia e la giacca militare non era il massimo della pulizia.
Ma non poteva essere questo a dare l’impressione che avessi bisogno di aiuto per mangiare.
Forse era la barba, lo sguardo, o magari la tristezza dei miei occhi che riflettono ancora la perdita della mia baby.
Magari tutte queste cose insieme hanno fatto di me un umano apparentemente senza casa che vive viaggiando sui treni regionali in compagnia di un barboncino spettinato.
Avrei dovuto chiederlo a lei, alla signora, prima che scendesse.
Avrei dovuto chiederle come aveva fatto a capirlo.
Di una cosa sono sempre andato fiero, ed è la mia capacità di nascondermi.
Smascherato sono tornato a casa con la vergogna di chi camminando nudo non trova più angoli dietro i quali nascondersi.
Libertà è la ragazza nell’ultimo banco
Libertà è la ragazza nell’ultimo banco, l’amore di quando andavo a scuola, quella che non mi ha mai notato fino a quando non ho tirato un pugno di rabbia contro il muro e mi ha chiesto se avevo voglia di uscire con lei.
Quella notte che abbiamo fatto l’amore lei fumandosi una sigaretta dopo avermi fatto godere mi ha detto che era solo una scopata.
“Non farti ingannare dall’illusione di poter possedere la libertà, mi concedo quando ne ho voglia e l’unica cosa che puoi possedere di me è il ricordo dei miei vestiti sul pavimento e del mio corpo sopra di te.”
Io la guardavo come si guarda una dea che si è tolta le ali per potersi sdraiare accanto a me e insieme guardavamo il soffitto cercando macchie di umidità che assomigliassero a costellazioni lontane.
La possedetti molte volte nella mia vita, sempre vedendola apparire inaspettata, io invecchiavo lei era sempre la stessa, cambiava solo il vestito e il modo di spogliarsi.
A volte indossava solo un cappotto e sotto nulla, quando faceva freddo veniva così vestita che era più il tempo che ci metteva a spogliarsi che quella passato ad amarsi, d’estate girava nuda per casa e adorava restare alla finestra facendo nodi alle tende per disegnare ombre sul letto.
Il ricordo più bello che ho di libertà è quando io restavo fuori a guardare il paesaggio e lei dentro preparava un caffè.
Sembravamo una famiglia, qualcosa che potesse non finire mai.
Improvvisamente scompariva lasciando il suo profumo sui cuscini e il cammino delle orme dei suoi piedi bagnati dalla doccia alla camera da letto.
Mi sono innamorato di Libertà ogni volta che l’ho vista e ogni volta ho sofferto nel vederla scomparire.
Ho cercato tutta la vita le parole giuste e le cose da fare per farla restare arrivando a capire che c’è solo un modo per farla tornare.
Farle credere che si è liberi anche senza Libertà, non darle l’impressione che sia necessaria ed amarla, nascondendo l’amore, amplificando la passione come se ogni volta fosse l’ultima, come se ogni sua carezza fosse il preludio alla fine.
Libertà si innamora di chi riesce ad amarla senza cedere al desiderio di possederla.
Vederla andare via senza chiamarla è il segreto per continuare a sperare che tornerà.
C’è una montagna che domina Jackson Hole
C’è una montagna che domina Jackson Hole.
Il mio van era parcheggiato proprio all’inizio della salita che portava alla cima.
Ogni sera, prima del tramonto, io Baby e Jack salivamo lungo le pendici del monte per arrivare ad un punto di osservazione dal quale si vedeva la città e sullo sfondo il Teton National Park e lo Yellowstone.
Non salivamo seguendo una linea retta ma facendo zig-zag per rendere il cammino meno faticoso.
Jack faceva più fatica perché era piccolino, Baby veniva su come un esperta scalatrice, Jack spesso si fermava a prendere fiato, Baby correva più avanti di tutti poi tornava indietro per raggiungerci poi ci superava ancora e poi una nuova corsa a riprenderci.
La sua felicità era nel perderci e nel ritrovarci.
In cima io mi sedevo su una roccia, Baby e Jack si rotolavano in un piccolo spazio piano dove l’erba i fiori e alcuni piccoli rami spezzati creavano un perfetto effetto massaggio alla schiena dei due cagnolini.
Dall’alto il mio van appariva come un piccolo puntino verde, quel puntino era la nostra casa.
Dopo aver ripreso forze si scendeva, sempre a zig-zag, questa volta per evitare le insidie della discesa.
Baby non ci stava e godendo del pendio si buttava giù per la discesa correndo come una matta, scavalcando il sentiero che tagliava la montagna.
Si fermava un attimo solo per guardare dove eravamo io e Jack. Poi di nuovo giù con la gioia di una bambina che scopre come la discesa renda più eccitante una corsa.
Quella salita serale era diventata un abitudine.
Arrivava dopo un giorno passato a cercare grizzly, cervi, alci e bisonti.
Ripensando a quei mesi mi accorgo come la meraviglia di quei giorni veniva sottovalutata per un abitudine al bello che fa perdere la cognizione dei privilegi che la natura regala all’uomo.
Stanotte chiuso nella mia camera ho il desiderio di scambiare dieci giorni di città per una sera su quella montagna dove la vita era così viva che non aveva nemmeno il tempo di porsi il problema della morte.
Impreparato
Non so se capita anche a voi ma le falsita’ che mi riguardano mi trovano impreparato.
Se devo difendermi da un accusa pur essendo innocente mi trovo in difficolta’.
Sono la classica persona che davanti alla macchina della verita’ farebbe una figura di merda.
E’ il complesso del cadavere nel bagagliaio.
Quando la polizia mi ferma ho sempre il timore che trovino qualcosa che non va.
Il tutto mentre vedo bugiardi patentati portare avanti le loro palle con una calma serafica, capaci di convincere chiunque della loro falsa innocenza.
Sono così prigioniero della mia paura di essere sbagliato che mi sforzo di essere credibile dicendo la verità.
Una storia per voi
Una storia per voi.
C’è il fumo della sigaretta che avvolge il suo volto, un attimo, e il fumo scompare.
Qualche secondo, un altro tiro e il fumo lo avvolge di nuovo.
Sta fumando di gusto, ogni boccata da un piacere strano.
Non e’ solo il sapore del tabacco, e il senso ritmico della vita, ritmo lento.
Apre il tetto della macchina e si concentra su quel grigio fumoso che sale verso il cielo.
La musica che esce da un amplificatore portatile e una bottiglia d’acqua per pulirsi la bocca.
Lei e’ li di fianco che lo guarda e non dice una parola.
C’è un silenzio che dura una playlist, il nome della playlist e’ “Quello che piace a me.”
Poi Lei si gira e dice: Me la rimetti?
Quale? Chiede Lui.
Quella dei Rem.
Poi lo guarda e sussurra: Te la dedico.
Num 13 della compilation.
Play.
Everybody hurts.
Capisci le parole? Chiede Lei.
Non tutte.
Ascolta, e io te le traduco.
Con una voce sottile parla sulla canzone ripetendo ogni frase tradotta in italiano.
Quando il giorno è lungo e la notte
La notte è tutta tua
Quando sei sicuro di averne avuto abbastanza
Di questa vita, beh, stringi i denti
Non lasciarti andare Tutti piangono
E tutti stanno male a volte
A volte è tutto sbagliato
Adesso è il momento di cantare insieme
Quando il tuo giorno è solo notte, tieni duro, tieni duro
Se ti sembra di star mollando, tieni duro
Quando pensi di averne avuto abbastanza
Di questa vita, beh, stringi i denti
Tutti stanno male
Approfitta dei tuoi amici
Tutti stanno male
Non mollare la presa, oh no
Non mollare la presa
Se ti senti come se fossi solo
No, no, no, non sei solo
Se te la cavi da solo in questa vita
I giorni e le notti sono lunghe
Quando sei sicuro di averne avuto abbastanza
Di questa vita per stringere i denti
Beh, tutti stanno male a volte
Tutti piangono E tutti stanno male a volte
Quindi tieni duro, tieni duro
Tutti stanno male
Non sei da solo.
Quando finisce la canzone il silenzio si impadronisce della scena.
Momenti in cui Lui e Lei guardano davanti verso una strada vuota.
Lui sta pensando a quando attraverso’ il Texas e il
New Mexico in moto sotto la neve, faceva molto freddo, si era coperto bene ma fece un errore.
Decise di fermarsi a meta’ del viaggio per fumarsi una sigaretta e si tolse il casco.
Si bagno’ la testa.
Poi rimise il casco e si rimise in viaggio.
Qualche chilometro dopo senti’ i brividi di freddo invadergli il corpo.
La neve cadeva fitta e si attaccava alle scarpe i piedi erano ghiacciati.
Era buio. Doveva arrivare a Santa Fe. Non poteva fermarsi, attorno non c’era nulla.
Comincio’ a respirare in maniera ritmica. Inspirare ed espirare concentrandosi sul movimento dello sterno.
Dentro e fuori, dentro e fuori, dentro e fuori.
Le mani erano ghiacciate, tenere l’acceleratore tirato era un dolore continuo.
Dentro e fuori, dentro e fuori, dentro e fuori. Non si sentiva piu’ le dita dei piedi e le formiche sembravano invadergli la testa.
Dentro e fuori, dentro e fuori, dentro e fuori. Non ce la faccio…non ce la faccio…
Dentro e fuori, dentro e fuori, dentro e fuori. Non ce la faccio …., no ce la….,n ce la….., ce la faccio….
Ce la faccio….ce la devo fare….Ce la faccio…. E arrivano le luci della citta’ in lontananza. Non appena le vede non sente piu’ nulla.
Ne freddo, ne caldo, solo una forza dentro che bilancia temperatura e fatica.
La potenza del traguardo intravisto, la fine del dubbio, il traguardo e’ laggiu’ e fino la ci arrivo. Cazzo se ci arrivo.
Lei sta pensando alla sua mattinata in tribunale e firmare la causa di separazione da suo marito.
La sera prima pensava di non farcela. Dieci anni di vita insieme cancellati da una firma.
Le scale del tribunale, l’attesa. Non ce la faccio, non ce la faccio.
Poi arrivano gli avvocati e lui.
Si salutano con un sorriso. Nessun rancore, e’ solo la fine di un amore.
Non ce la faccio, non ce la faccio.
Poi una voce chiama. Tocca a voi.
La stanza e’ squallida, come deve esserlo la stanza che sancisce la fine di qualcosa.
Il giudice la chiama.
Firma leggibile mi raccomando.
Non ce la faccio. Non ce la faccio.
La mano sul foglio. Dove devo firmare?
Datemi ancora un secondo, un secondo di illusione.
Firmi li’. Su quella riga.
Non ce la faccio…, no ce la faccio…n ce la faccio… Ce la faccio…ce la devo fare…ce la faccio
E sul foglio appare se stessa, se stessa in uno scarabocchio, il traguardo e la ripartenza sanciti da un milligrammo di inchiostro nero.
Lui e Lei in quella macchina in quella sera di Febbraio a rivivere la confusione che c’è tra un inizio e una fine.
Era da tempo che non si vedevano, mesi, forse un anno, e il caso e le circostanze li avevano riportati li’, a pochi centimetri di distanza.
Sai cosa mi piace di te? Disse Lei.
Cosa?
Mi piace che sei come un albero.
E sai cosa mi piace degli alberi?
Che stanno li’.
Con le radici nel terreno.
E io so che quando ho bisogno di appoggiarmi o di trovare un riparo, o dell’ombra, io so che sei li’.
Come un albero.
Strano.
Con tutti i viaggi che hai fatto, nonostante la tua vita in movimento, io ti vedo cosi’.
Ma se non sto fermo un attimo. Disse Lui.
Scrolli i tuoi rami, muovi le tue foglie, ti lasci facilmente piegare dal vento ma rimani li’.
Sei un albero.
Lui rimase perplesso. Un albero?
Poi ripenso’ a quel viaggio verso Santa Fe’.
Era in movimento, ma in realta’ riuscì ad arrivare dove voleva perché’ era immobile.
Immobile su quella moto che si muoveva.
Lei si muoveva, non lui.
Lui strinse le mani sul manubrio ed erano radici piantate nel terreno.
Teneva i piedi fissi sulla pedaliera, ed erano radici piantate nel terreno.
Persino il suo sguardo sulla strada era una radice.
Non ci avevo mai pensato. Le disse.
Lo so. Rispose Lei.
Sai cosa mi piace di te? Disse Lui.
Dimmi.
Mi piace di te che fai sentire quest’albero vivo, quando ti appoggi per riposarti o quando cerchi dell’ombra sotto i miei rami.
Cosi’ io capisco di avere un motivo di essere li’.
Di essere.
Sai noi alberi a volte abbiamo quest’idea di essere inutili.
Certo a volte possono pisciare contro il nostro tronco e siamo perfetti per marcare il territorio.
Ma questo non e’ quello che gli alberi sognano.
Lei si avvicino’. Gli prese la mano.
Poi disse.
Mi e’ venuta in mente una cosa.
Cosa? Chiese Lui.
Avevo cinque anni, ero in campagna, in giardino c’era un albero di noce, decisi di scalarlo.
Un ramo dopo l’altro, sempre piu’ in alto.
Arrivai in cima.
Non dimentichero’ mai quel giorno.
Era la prima volta in vita mia che vedevo il mondo dall’alto. Era la prima volta che i particolari mi sembrarono cosi’ piccoli e il mondo mi apparve cosi’ grande.
Ero troppo piccola per dare un significato a quella sensazione ma col tempo il significato venne fuori. E’ inutile che te lo spieghi vero?
Si. E’ inutile. Perche’ lo sappiamo.
Ci fumiamo l’ultima sigaretta?
C’è il fumo della sigaretta che avvolge il loro volto, un attimo, e il fumo scompare.
Qualche secondo, un altro tiro e il fumo li avvolge di nuovo.
Stanno fumando di gusto, ogni boccata da un piacere strano.
Non e’ solo il sapore del tabacco, e il senso ritmico della vita, ritmo lento che passa veloce.
Troppo veloce.