Rimanemmo chiusi all’interno del cimitero di Lewistown alla ricerca delle tombe del Giudice Somers e dell’ubriacone Chase Henry.
Passammo la notte nel van mentre dal finestrino si vedeva una enorme quercia rossa illuminata dai lumini incredibilmente ancora accesi dopo una giornata di vento e pioggia.
Tu mi dicevi che era un miracolo io sostenevo la tesi di una di quelle botte di culo che permettono agli uomini di sopravvivere dopo un incidente.
Ti faceva ridere l’idea che un lumino funerario potesse avere una botta di culo, oltre al fatto che ci misi mezz’ora a tradurre “botta di culo” in un inglese che ti fosse comprensibile.
Dormimmo fino al giorno dopo senza mai avegliarci e come accade quando si dorme in viaggio quando mi svegliai rimasi per un attimo indeciso sul luogo in cui mi trovassi.
Poi mi girai e appoggiato in fondo al letto c’era il libro di Spoon River e ricordai.
Tu stavi già preparando il caffè
Jackson stava facendo la cacca ai piedi della quercia e un corvo si era venuto a posare sul ferro che teneva in piedi la statua di bronzo barcollante di un bambino che orgoglioso si guardava il suo guanto da baseball.
Il bambino riposava a poche decine di metri dalle ruote della nostra casa viaggiante.
Si chiamava Charlie e c’erano fiori freschi a ricordare che qualcuno lo ricordava.
C’era una nebbiolina leggera di quelle che si arrendono facilmente all’arrivo del sole, camminammo scalzi sull’erba bagnata, eri tu che dicevi che camminare scalzi sull’erba bagnata faceva bene e a me piaceva crederti, crederti sempre, sopratutto se le cose che dicevi erano incredibili.
Alle otto una signora che teneva un gatto nero in una borsa aprì il cancello, ci vide ma fece finta di non vederci.
Tu raccogliesti un sasso e dopo averlo portato a Charlie mi dicesti che eri pronta per andare.
Lasciammo Lewinston, prendemmo la Route 97.
Direzione Sud.
Anzi Nord.
A dire il vero non sapevo.
Bastava andare.
Categoria: In viaggio
Bush Street, San Francisco
La pensione per studenti era al 715 di Bush Street a San Francisco.
La mia camera era al terzo piano.
Si mangiava nelle cantine in un ristorante francese chiamato Jeanne d’Arc.
Le lezioni di Inglese cominciavano alla mattina e finivano nel tardo pomeriggio.
Le frequentai solo la prima settimana, poi mi diedi al vagabondaggio.
Giravo con altri studenti per la città meravigliandomi ad ogni angolo di come l’America fosse l’America.
Era il 1984.
Prendiamo un auto e decidiamo di andare verso sud, raggiungiamo Los Angeles, da li proseguiamo per San Diego.
Sfidando tutti coloro che ce lo sconsigliavano attraversiamo il confine per arrivare a Tijuana.
Da li scappiamo dopo essere stati fermati per due ore dalla polizia messicana.
Raggiungiamo Yuma in Arizona.
La nostra auto è targata 1CAZ329.
La soprannomino l’auto col cazzo lungo piu’ di tre metri.
A Tuscon scopro che nei grandi magazzini non ci sono sistemi di allarme.
Rubiamo di tutto.
Vestiti, scarpe e puttanate varie.
C’era andata bene, sul letto della stanza d’albergo era stesa tutta la refurtiva pronta per essere caricata in macchina.
Ma abbiamo finito le sigarette.
Usciamo a comprarle, anzi no, decidiamo di rubare anche quelle.
Ci fermano all’uscita dello store e ci dicono di aprire la giacca, io guardo Marco, lui guarda me e decidiamo di scappare senza guardarci indietro.
Facciamo un lungo viale di corsa nascosti dietro le auto in sosta,quasi a quattro zampe per non farci vedere.
Arrivati in albergo carichiamo tutto in macchina e ce ne andiamo in direzione New Mexico.
Lo avevamo visto nei film; l’importante è arrivare in un altro stato.
Arrivammo a Lordsburg che era sera.
Eravamo salvi.
Il giorno dopo saliamo verso nord.
Preso da qualche raptus mi fermo in un parrucchiere per signora di Roswell e chiedo di farmi i capelli color fucsia.
Arrivati a Santa Fe decidiamo che non c’è piu’ pericolo.
Rientriamo in Arizona.
Monument Valley e Grand Canyon.
Nel frattempo mi accorgo che mancano 10 giorni al mio rientro in Italia.
Se mio padre mi avesse visto con i capelli color fucsia mi avrebbe ammazzato.
Compro una lametta da barba e chiedo a Marco di rasarmi a zero.
L’operazione avviene dentro una vasca da bagno.
Cadono i capelli e cadono pezzi di pelle, a lavoro finito la mia testa è piena di tagli e di sangue.
Andiamo a dormire.
La mattina dopo mi sveglio prestissimo, vado allo specchio e mi faccio paura da solo.
Ho una testa spappolata.
Decido di fare uno scherzo.
Mi metto in ginocchio di fronte al lato del letto dove Marco sta dormendo.
Lo sveglio, apre gli occhi e mi vede che sembro Freddy Krueger.
Lancia un urlo e salta sul letto. Io mi piego in due dal ridere.
Arrivati al Grand Canyon ci sono code per fare qualsiasi cosa ma la gente dopo aver visto la mia testa pensa io sia gravemente malato e decide di farmi passare avanti.
Dopo qualche giorno le cicatrici spariscono e rimane solo la pelata.
Arrivati a Las Vegas mentre cammino sulla Strip un tizio mi dice se voglio scoparmi la sosia di qualche personaggio famoso e mi lascia un biglietto da visita di un agenzia che propone prostitute identiche ad attrici e cantante.
Arrivato in albergo chiamo e chiedo che mi mandino la sosia di Madonna.
Arriva una ragazza che assomigliava a Tina Turner.
La mando via.
Richiamo. Ripeto che voglio Madonna.
Arriva una ragazza che assomigliava alla versione femminile di Spock di Star Trek.
Richiamo un ultima volta e mi incazzo pure.
O mi mandate Madonna o andate a fare in culo.
Passa mezz’ora ed arriva Madonna.
Identica, entra in camera con uno stereo portatile appoggiato sulle spalle dal quale usciva la canzone Holiday.
Si spogliò ballando poi venne sul letto e a 20 anni potevo dire di aver fatto l’amore con Madonna.
O quasi.
Lasciata Las Vegas tornammo verso San Francisco da dove saremmo ripartiti per tornare in Italia.
L’ultimo giorno di lezioni tornai in classe, la maestra d’inglese mi guardò come se non me ne fossi mai andato.
Andai in segreteria ritirai un attestato di frequenza e passai l’ultima notte ad una festa di drag queen.
A Milano vennero a prendermi mia madre e mio fratello.
Mia madre mi chiese come era andata.
Benissimo, dissi, a parte le lezioni di inglese che erano state dure da sopportare.
In testa mi era cresciuto un centimetro di capelli, quello che bastava per rientrare nella norma.
E mentre tornavo verso Genova avevo solo un desiderio.
Fuggire di nuovo.
.
L’atmosfera è perfetta
L’atmosfera è perfetta.
I milioni di zanzare che mi volano attorno non rovinano il paesaggio e poi ho un sangue schifoso e le zanzare restano a un metro di distanza, hanno un espressione schifata come chi pensava di bersi un buon whisky e si è ritrovato nel bicchiere solo acqua sporca.
I cavalli tra poco tornano a casa e il falco verrà a posarsi sulla sommità del palo dove ha costruito il nido.
Io rimango conquistato di fronte alla bellezza del mondo disabitato.
Sono perennemente incazzato con l’aumento demografico e ringrazio dio che mi farà crepare prima che gli uomini diventino più numerosi dei topi.
Di fronte alla natura smetti di porti domande idiote del tipo che cosa accadrà dopo la morte.
Diventi come un tramonto che non si chiede dell’alba, sei come un pesce di fiume che non si chiede del mare, sei un orsa che è troppo impegnata a cercare del cibo per il suo cucciolo per pensare ad altro.
Non sono così idiota da convincermi che sono selvatico, ho un cesso su cui appoggio il culo per cagare, accendo la luce con un interruttore, la carne la tengo in frigo e l’acqua dentro bottiglie di plastica.
Ma quando sono uscito dal van e mi sono trovato sul bordo della valle, con un milione di zanzare che non osavano attaccarmi e una mandria di cavalli che guardava il tramonto, ho capito che era impossibile fuggire dalla civiltà ma potevo osare e chiedere alla terra se voleva sposarmi.
E lei mi ha detto di si pur sapendo che forse l’avrei tradita o che forse lei avrebbe tradito me.
L’amore è un sentimento strano che diventa patetico se usato per legarsi e diventa maestoso se usato per liberarsi.
Tirava un vento
Tirava un vento che mi trascinava via, le nuvole correvano che sembravano fantasmi spaventati dalla stronzaggine umana, i rami degli alberi si agitavano come se volessero fuggire dal tronco e riacquistare la libertà.
E a fondo valle un camion piantava cartelli per enormi affissioni lungo tutta la Highway..
Hanno tutti bisogno di qualcosa di cui non hanno bisogno, tra poco i pendolari che da Red Pine vanno a Big Bear potranno guidare osservando consigli per gli acquisti.
Io preferisco le strade secondarie, dove i cartelloni sono snobbati dalle campagne nazionali e riportano solo consigli locali.
Ho scoperto che alla lavanderia di Keystone il venerdì la biancheria intima la si lava gratis, e nel Saloon di Douglas le ragazze il venerdì sera possono bere due birre al prezzo di una, e che dire della promozione del negozio di ferramente di Buffalo che se riesci a piantare un chiodo in un legno con una sola martellata ti regala il martello e un chilo di chiodi.
Lasciai la collina e mi diressi al parcheggio, il vento era calato a Wounded Knee e il tramonto era stato ucciso da una nube nera e assassina.
Presi il van per andare verso la Riserva dei Crow, destinazione Billings.
Strade blu, musica del Creedence e una notte senza luna che l’unica cosa che vedevo era qualche metro di strada illuminato dai fari e milioni di moscerini a caccia di un illuminazione.
Umani e moscerini, stesso destino, solo chi ha impararato a convivere con il buio riesce a non schiantarsi contro gli “abbaglianti”.
Guido e ti penso, con i tuoi occhi che guardavano i miei chiedendomi che fine avesse fatto il nostro amore.
E io ti dissi che se l’avessi saputo sarei andato a riprenderlo. Dovunque si fosse trovato.
Poi ci lasciammo sapendo che non ci saremmo lasciati mai.
Apparentemente normale
apparentemente normale
se non fosse che la vita non ha nulla di normale
è il meccanismo che lascia stupefatti
vivere è un equazione impossibile
risolta da un bambino di quattro anni
con uno scarabocchio su un foglio a quadretti
vite che si incrociano
su uno sfondo a due dimensioni
diventano la prova che l’attimo lascia tracce
noi ne siamo involontari protagonisti
come figure poste a caso
da un dio con la passione della fotografia
che passa il tempo a riempire
l’infinito muro della sua stanza
con istantanee della vita dei vivi
Super 8, iowa
Al Super 8 di Iowa City c’era solo una camera libera.
Dopo una settimana di van avevo voglia di dormire e di lavarmi in una stanza di Motel e quell’ultima camera era benedetta.
C’erano due letti sormontati da due foto in bianco e nero, una foto raffigurava una serie di alberi i cui rami creavano un tunnel fatto di foglie, nell’altra foto c’era un laghetto dentro il quale galleggiavano due anatre.
Il copriletto era viola, il comodino era al centro dei due letti e conteneva una cassaforte.
Fuori pioveva.
Accesi il riscaldamento.
Mi spogliai buttando i vestiti per terra e mi infilai sotto la doccia.
Ci misi qualche minuto a scoprire come funzionava il miscelatore dell’acqua fredda-calda.
Usai il minuscolo sapone dell’albergo contenuto in una minuscola busta di plastica.
Allagai il bagno e mi asciugai con un asciugamano minuscolo.
Mi gettai sul letto e feci zapping passando dal canale Meteo a un talk show locale che discuteva dell’incredibile novità del wi-fi libero in tutti i parchi cittadini.
Spensi la tv.
Da te era mattina, da me mezzanotte.
Pensai che ti sarebbe piaciuto essere qui.
Avevamo in comune questa passione per i motel scelti a caso lungo la strada.
Mi chiedevi di non prenotare mai, ma di lasciare tutto al caso.
Ricordo che per questa tua mania dormimmo spesso in auto.
Sopratutto il venerdì e il sabato quando i ragazzi del luogo vanno in albergo a fare l’amore e i turisti rimangono fottuti.
Avevo una gran voglia di chiamarti ma avevo paura che sentirti avrebbe reso quella notte ancora più malinconica.
C’è chi si innamora come fosse tirare una scoreggia, finisce un amore e ne arriva subito un altro.
I pendolari dei sentimenti, con il cuore che si adegua alla necessità di voler amare ed essere amati.
Poi ci sono quelli come me e te.
Che quando accade rimangono sorpresi, scossi, frastornati di fronte a quell’evento così raro nelle nostra vita, l’amore.
Come fosse una corda gettata per salvarci dall’abisso di cui eravamo ignari fino ad un attimo prima di esserci salvati a vicenda.
Camera num. 5
Il 5 è il mio numero preferito.
Concedimi di immaginare una volontà giocosa nel caso.
Lui sa che io e te ci conoscemmo il 25 di maggio e facemmo l’amore la prima volta il 5 del mese successivo.
Non posso dimenticarlo, era il mio compleanno.
Se spengo la luce e apro le tende vedo un lampione.
Sembra quasi che la pioggia stia diventando neve.
Quanto vorrei fossi qui.
Strana sensazione la consapevolezza che facciamo finire storie che avremmo voluto non finissero mai.
Ti manca qualcosa in cui credere.
Starai mangiando?
Da te è l’ora di pranzo.
Qui è meglio dormire.
Domani voglio mettermi in viaggio presto.
Nel caso leggessi questa storia devi sapere che dopo aver condiviso tanta strada con te mi accade di immaginarti seduta nel sedile accanto che guardi la mappa e se mi giro a guardare il letto di fianco al mio vedo ancora i tuoi occhi che mi danno la buonanotte.
dormivo in auto
Dormivo in auto sulla Melrose, di fronte a Starbucks.
Facevo calare il sedile fino a trasformarlo in un giaciglio.
Poi mettevo le cuffie e ascoltavo Anita O’Day cantare It never entered my mind.
Avevo tutto quello di cui avevo bisogno.
Mi lavavo all’alba nel bagno di Starbucks facendo la coda con barboni più o meno vogliosi di raccontarsi.
C’era un tipo enorme di colore che era tatuato dalla testa ai piedi compreso il volto.
A vederlo metteva paura a parlargli metteva tenerezza.
Era cresciuto in una base militare militare americana in Italia, il suo italiano era scolastico ma bastava per capire che la sua vita per strada era stata una scelta di ribellione al conformismo militaresco del padre.
Tommy viveva sulla strada perché dopo la morte della moglie non era piu’ riuscito a dormire nella casa che aveva condiviso con l’amore della sua vita.
Anita aveva 22 anni ed era fuggita da casa per sfuggire al nuovo marito di sua madre che tornava a casa ubriaco ogni sera.
E poi c’era un signore elegante che sembrava un professore di università, portava sempre il farfallino e la giacca e dormiva su una mercedes parcheggiata dietro l’angolo.
Non mi disse perché viveva in un auto ma un giorno mi fece una citazione tratta da “Vita nei boschi” di Walden che non ho mai dimenticato:
“Un uomo e’ ricco in proporzione al numero di cose di cui può fare a meno.”
Sono stato cosi’ libero che la libertà divenne una prigione, una dipendenza, una necessità.
E se mi chiedete cosa sia la libertà la mia risposta è semplice.
Libertà è possedere l’unica cosa di cui si ha veramente bisogno.
La proprietà del tempo.
Come possedere un enorme magazzino che puoi riempire di albe, tramonti, parole, conoscenze, fughe e ritorni, luoghi e memorie.
Qualunque persona sensibile che abbia mai provato a studiare la storia dell’umanità si sarà chiesto perché l’uomo ami complicarsi la vita creando conflitti, divisioni e caste?
La risposta non esiste, esiste solo la consapevolezza che bisogna stare lontani.
Stare lontani dalle regole, dalle leggi, dalle convenzioni, dagli ubbidisco, dal forte che sovrasta il debole e dal debole che non ha la forza di ribellarsi.
Stare lontani è uno stile di vita.
E poi ci ritroviamo tra di noi, noi che stiamo distanti, magari davanti al cesso di Starbucks facendo la coda per lavarsi la faccia e i denti.
Con lo sguardo sereno di chi ha imparato a fare a meno di tutto tranne che di se stesso.
Non è mica facile.
Ma nulla è facile.
E se lo fosse forse non ne varrebbe nemmeno la pena.
Mi serve una musica
Mi serve una musica per coprire il rumore del treno.Non è il rumore che mi da fastidio ma il ricordo di lei che parte.
Fondamentalmente vivo in un mondo di bugiardi con la faccia onesta, gente che sa usare le parole e non sa nemmeno come si cominci a mettere in moto un cuore.
Nel mio campo di cotone siamo rimasti in pochi e tutti senza padrone, lo raccogliamo per il gusto di lavorare senza catene.
Quando mi confronto con la mia solitudine mi consolo col pensiero che non avrei sposato nessuna di quelle donne con cui i miei vecchi amici hanno deciso di passare la loro vita.
Non ci si può lamentare di non aver trovate il filone di smeraldi, qualunque cercatore di pietre preziose sa che il divertimento è nel cercare.
Trovare è una possibilità su cui nessun buon giocatore punterebbe un dollaro
Ho una passione per le passioni, il vecchio Joe sotto un albero cercando l’ultimo tabacco nel fondo di una lattina di caffè mi disse che la passione è come il sapore della gomma da masticare, piu’ mastichi prima scompare.Lo disse sputando il tabacco e dando un sorso a un fondo di Jack Daniel.
Sempre pensato che chi beve dalla bottiglia ha un animo selvaggio e fanciullo, il bicchiere è un oggetto superfluo amato dai superflui.Lady Macbeth cercò di convincermi del piacere del successo portandomi davanti alle vetrine di una concessionaria di Corvette , io la scopai sul mio van e la lasciai consolandola con l’indirizzo di un uomo che aveva tutto tranne una moglie stronza con cui condividere quel tutto.
Il blues suonava, la neve cadeva, il corvo stava sul filo, la lucertola aveva una coda biforcuta e il lupo faceva la guardia al mio cuore mentre un indiano con una chitarra sulla spalla andava incontro ai graffi di un orso, tutto questo mentre scrivevo su un foglio:”cercasi amore disperatamente” non feci tempo ad aggiungere che mi sarebbe bastato trovarlo per quel tempo che basta da poter dire di averlo incontrato che qualcuno mi sparò alla schiena.
Credo di esser morto ma non abbastanza da non poter rialzarmi il giorno dopo e ricominciare tutto daccapo come se niente fosse successo.
Sul treno da Berlino a Minsk
Sul treno che portava da Berlino a Minsk fui svegliato nel mezzo della notte dalle martellate che adattavano le ruote motrici alle rotaie polacche.
Dormivo in una cuccetta con un vecchio Bielorusso che tornava a casa, aveva una valigia di cartone dal quale usciva un odore di salsicce.
Mi rimisi a dormire pensando a Viktoria che mi aspettava a Baranovichy.
Inutile negare che la ricerca dell’amore ci porta a fare cazzate meravigliose senza le quali la vita non avrebbe senso.
Vissi una settimana mangiando patate e pollo, facendo l’amore cinque volta al giorno in un vecchio appartamento arredato come una casa italiana nel dopoguerra, passeggiando per parchi deserti e cercando disperatamente qualche ragione che giustificasse quel senso di squallore che il comunismo regala ai suoi regni.
Volevo che Viktoria tornasse con me, andammo in un luogo misterioso dove si potevano richiedere i visti per l’espatrio, un burocrate pezzo di merda mi disse che le bellezze Bielorusse erano equiparate ad opere d’arte e come le opere d’arte non potevano lasciare il paese.
Lasciai Viktoria a Baranovichy e tornai sentendomi più solo di quando fossi partito.
Venni a scoprire anni dopo che era riuscita ad arrivare in Italia e che si era sposata, era diventata mamma e viveva in una piccola città nel Nord Italia.
Ed io sono ancora qua a ricostruire i viaggi con la memoria, cercando un senso in ogni amplesso, motivando un addio con la scusa di aver bevuto ogni bicchiere che mi è stato offerto, qui in una città che sembra l’ombra di se stessa, e come un ombra sembra seguirti senza lasciarti nessuna possibilità di sfuggirgli.
Forse spegnendo le luci.
Forse spegnendo le luci posso cercare qualcosa nel buio, trovare uno sguardo che pensa di non essere visto, magari gli occhi della libraria che sono l’unica cosa di lei che conosco a parte i fiori che abbelliscono la sua mascherina nascondendole il viso.
Dal piano sotto al piano sopra è un viaggio, dalla cucina al cesso è un viaggio, da casa al supermercato è quasi un volo intercontinentale, ridotto a dare ai centimetri il valore dei chilometri per non sentirmi immobile e inutile.
Ne sa qualcosa il gatto che non ho mai accarezzato tanto, o i cani che non ho mai abbracciato tanto, ne sanno i libri che apro e chiudo in continuazione, lo sa persino la pipa che non veniva fumata da anni e ora mi regala il decollo di un filo di fumo che si va a schiantare contro lo schermo del computer.
Togliete il guscio a una tartaruga e datele un attico a Manhattan, non la vedrete felice, togliete le ali all’aquila e regalatele il cielo, non la vedrete felice, togliete il tempo all’uomo e regalategli l’eternità, solo gli imbecilli ringrazieranno.
Solo, seduto accanto al tappeto gioco con un camion, fingo di portare cemento per costruire una casa tutta mia, mia madre entra in camera e mi dice che è ora di mangiare.
Parcheggio il camion accanto al piede del letto, nascondo l’omino che lo guida sotto il cuscino e vado in cucina.
Mia madre mi chiede cosa stavo facendo io le dico che stavo costruendo una casa e che l’avrei fatta abbastanza grande per darle una camera enorme dove avrebbe potuto anche nuotare.
Nuotare? Mi chiese.
Certo, le dissi. Sapevo che le piaceva il mare.
Poi senza opporre resistenza dal nulla mi lascio catturare, mi dichiaro colpevole a chi mi accusa di non aver saputo amare.
Sappiate che lo faccio solo perché sono stufo di nascondermi e scappare.
Joshua e lA FALENA
Joshua e la falena non possono fare a meno uno dell’altra.
Joshua porge il fiore e la falena deponendo al suo interno le uova ne diffonde il polline.
Una vita in simbiosi.
La mia idea dell’amore?
L’albero e l’animale notturno, sperduti e soli nel deserto.
Inconsapevoli dell’universo sfidano il caldo torrido e il freddo improvviso regalandosi la possibilità di creare vita dalla vita.
Io non cerco l’amore, cerco una falena.