Sedia a dondolo

La vedemmo insieme e decidemmo di comperarla.
Poi lei morì il giorno prima che andammo a ritirarla.
E da allora ogni volta che dondolo penso a lei.
Quando la vide mi disse:
Tu hai bisogno di dondolare, compriamola.
Le chiesi perché pensasse che io avessi bisogno di dondolare e lei mi rispose che quando un uomo dondola non pensa e io avevo bisogno di non pensare.
Mia moglie la conobbi che aveva tredici anni.
Passava i pomeriggi ad aiutare suo padre nel negozio di ferramenta in fondo alla città.
Ero entrato per comperare una scatola di chiodi, la vidi, e comperai chiodi tutti i giorni per un mese di fila.
Poi un pomeriggio mi disse:
E se al posto dei chiodi comperassi delle viti?
Perché? Le chiesi.
Perché i chiodi li ho finiti.
E comprai viti fino a quando non finì anche quelle.
Prima che passassi ai bulloni lei mi diede un appuntamento al cinema per lo spettacolo del sabato pomeriggio.
Saremmo dovuti entrare separati e fingere di ritrovarci seduti vicini per caso.
Non ricordo il titolo del film.
Ricordo che afferrai la sua mano e la tenni percorrendo con i polpastrelli la lunghezza di ogni suo dito, poi le massaggiai il palmo rimanendo colpito dalla morbidezza della sua pelle.
Lei non si girò mai a guardarmi.
Avermi affidato una mano era una concessione così spropositata che non c’era bisogno di sguardi per capire che ci eravamo scelti.
Non per questo smisi di comperare ogni genere di prodotti in vendita nella ferramenta di suo padre.
La voglia di vederla mi fece diventare un abile costruttore di porte blindate, armadi, imparai a cambiare le serrature e riparare armadi, poi passai al giardinaggio, e ci fu il momento in cui progettai meravigliosi cancelletti per i giardini dei vicini, erano cosi’ belli che tutti li vollero.
Alla fine del corteggiamento mi ritrovai ad essere il miglior artigiano della città.
Quando ci sposammo costruii con le mie mani la nostra casa, poi nacquero due bambine e la vita procedeva, giorno dopo giorno, come se fosse una storia cosi’ normale da non meritare una fine.
Era la mia speranza, essere cosi’ banali da non meritare una conclusione.
Ma ci pensavo.
Ci pensavo a come sarebbe stata la mia vita quando le bambine sarebbero cresciute e se ne fossero andate.
Quando accadde, lo ricordo come fosse oggi, mi sembrò di aver cresciuto un milione di rondini per poi vederle volare via in uno stormo cosi’ grande da oscurare il sole.
Lei mi diceva di non pensarci.
E per non pensarci decidemmo di comperarla.
Mi lasciò il giorno prima che andassimo a ritirarla.
E da allora ogni volta che dondolo penso a lei che era sicura che comprandola avrei smesso di pensare.
Sapete cosa ho imparato di questa cosa chiamata vita?
Ho imparato che noi pensiamo di conoscere dove portino le strade che abbiamo percorso mille volte, ma pur sapendo il luogo dove stiamo andando non potremo mai sapere come quel luogo sarà cambiato al nostro arrivo.

Cazzo, fica, culo, tette

Cazzo, fica, culo, tette.
Ripetevo fra me e me, mentre mia madre mi teneva la manina e mi portava in giro per Genova.
Avevo circa otto anni ed è questo il ricordo della mia prima trasgressione.
Trasgressione silenziosa, una litania che sussurravo come una formula magica nel tentativo di capire cosa sarebbe accaduto nel disubbidire all’imperativo di non dire parolacce.
Non accadeva nulla, se sei bravo a disubbidire non accade nulla.
A Messa, quando il prete diceva di scambiarsi un segno di pace io me ne stavo con le mani in tasca, e al segno di pace rispondevo col muso.
Odiavo quell’imperativo, non mi è mai piaciuto toccare gli sconosciuti e non me ne fregava nulla se ad imporlo era un cazzo di prete.
Non scambiavo segni di pace con vecchietti che avevano mani rugose e viscide.
Poi trasgredire diventò un abitudine.
Più i rischi aumentavano più la trasgressione diventava irresistibile.
L’atto del trasgredire, dell’andare oltre i limiti consentiti, violare una norma, un ordine, una legge era il gioco più bello che avessero mai inventato.
Ripensandoci oggi poteva benissimo essere scambiato per masochismo, mio padre menava di brutto, a scuola si incazzavano di brutto, i professori erano predisposti a fare la spia e anche i genitori degli amici rappresentavano un nemico di cui non fidarsi.
C’era sempre il pericolo che qualcuno si incazzasse.
Perchè a quei tempi l’incazzatura era una cosa seria.
Mica facevano finta.
Se decidevi di dichiarare guerra potevi rimetterci le penne.
C’è chi la dichiarava cominciando a drogarsi.
Chi dandosi all’alcool.
Altri si davano alla velocità.
Ma più ti mettevi nella merda più ti sentivi vivo.
Sapete qual era lo scopo del gioco?
Sopravvivere.
Ed era tutto allenamento.
Allenamento alla vita.
Sarebbe servito tutto.
Le botte.
Le cadute.
I sogni infranti.
Gli amori finiti.
Le ubriacature.
La canna che ti fa collassare.
L’incidente in auto.
Tutto sarebbe servito a scoprire quell’attimo, quell’ultimo attimo disponibile per aprire il paracadute un attimo prima che sia troppo tardi.
Imparare a frenare in tempo.
Ad allontanarsi in tempo.
A non crederci prima che sia troppo tardi.
Eravamo bambini, ragazzi, che si mettevano alla prova spinti da un istinto di sopravvivenza che non può fare a meno del rischio per testarsi.
Se guardassimo oggi quei nostri occhi adolescenti vedremmo quel fuoco.
Il fuoco della rabbia che solo la consapevolezza ti può dare.
La consapevolezza che eravamo condannati ad entrare nel mondo dei grandi, quei grandi che odiavamo, quei grandi che non ci capivano, quei grandi che sembravano provare piacere nel distruggere i nostri sogni.
Sapevamo che saremmo diventati come loro e tutto ciò era cosi’ insopportabile che non potevamo fare altro che cercare di consumarci prima, prima di doverci giudicare con le stesse parole, le stesse regole di coloro contro cui stavamo combattendo.
Cazzo, fica, culo, tette.
Lo so, lo so che le parolacce non si possono dire.
Ma se le hanno inventate un motivo ci sarà.
A otto anni quel motivo mi era perfettamente chiaro.
Oggi quando mi sembra di non ricordarlo ripeto fra di me
Cazzo, fica, culo, tette
e tutto mi torna in mente.
Datemi un nemico da combattere ,un ideale da difendere, e una regola da trasgredire.
Solo rischiando di perdere si può sperare di vincere.

Come se…

L’esserci e il non esserci.
La presenza e l’assenza.
L’assenza di chi potrà ancora esserci, e l’assenza di chi non potrà esserci mai più.
Ho steso un filo per terra, ci ho camminato sopra senza provare nessuna emozione.
Non serve morire in guerra, si muore lo stesso, anche in tempo di pace, e forse fa più male non avendo nemmeno una ragione a cui aggrapparsi.
Abbiamo imparato l’arte di aspettare la fine come si aspetta un treno sperando arrivi in ritardo per permetterci ancora baci, tanti baci all’amore che ci ha accompagnato alla stazione.
Ma il treno arriva.
Quando sali aspetti a sederti per vederla dal vetro concentrandoti sull’ultimo attimo prima che scompaia, come se quell’attimo valesse un eternità.
Come se…

Io semplicemente cammino

Io semplicemente cammino.
Guardandomi attorno, meravigliandomi ogni tanto, cercando dei suoni piacevoli, annusando l’aria, ritrovando tracce dell’apocalisse sotto grovigli di radici.

L’uomo è un pazzo.
Pensate che era convinto di poter distruggere il pianeta su cui viveva.
Non ci sarebbe mai riuscito. 
Avrebbe distrutto la sua specie, niente di piu’, niente piu’ bipedi, e cosi’ in una meravigliosa mancanza di tempo e numeri, il mondo ferito sarebbe potuto guarire dopo essersi scrollato di dosso gli dei, le ipocrisie, le paure di quella razza bastarda.

Cosi’ accadde.

Perché il mondo è una palla di vita che ha subito l’arroganza umana nella consapevolezza che la grandezza dell’universo avrebbe guardato a quella arroganza come un aquila vede il piccolo topo scannarsi per un pezzo di formaggio.
E con il formaggio nello stomaco il topo fini’ nello stomaco dell’aquila.

Io semplicemente cammino guardando un poster abbandonato sulla strada, la faccia di Bob Marley che si fuma una canna, un leggero vento che alza il bordo del poster fino a rivelare un dorso bianco privo di significato.
Gli idoli. Il tentativo riuscito di disumanizzare una essere umano, usare un carattere, una personalità, rivoltarla fino a renderla idonea a sorreggere i nostri alibi.

Quanto hanno lottato, quanto deve essere stato difficile morire tutti, faccia a faccia, uno di fronte all’altro, nemici per nulla, per il gusto della contrapposizione. Per la voglia di sentirsi necessari ad un ideale, perché nessun ideale è necessario all’uomo.

Bastava lasciarsi trasportare. 

Una casa.

Entro.

Una cucina. Fammi vedere cosa trovo.
Pasta, olio, frutta marcita, pane secco ed un lavandino con dei piatti sporchi.
Topi che si leccano i baffi di fronte a tanto ben di Dio.
Topi.
Loro non hanno mai capito il significato della parola sprecare.
Per loro ogni bistecca buttata via era una cena.
Ma guarda te, uomini cosi’ egoisti da ritenere sprecato tutto cio’ che qualche altro essere vivente avrebbe invece digerito.
Sono milioni di topi, grossi come gatti, ma guai a chiamarli gatti.
Padroni della città. Vi stanno organizzando in bande, qualcuno sta cercando di camminare sulle due zampe, lo sanno tutti tutti che i topi avrebbero voluto nascere uomini.

Qualcuno prova ad avvicinarsi ai miei piedi, gli do un calcio nel culo con tutta la mia forza. Il topo volo e si spaiccica contro il muro, poi crolla al suolo ferito ed incazzato.
Maledetti topi.

Una camera da letto.

Una foto di una bambina.
Bellissima, con i capelli lunghi biondi, innocente.
L’uomo è vittima di se stesso, nasce innocente e muore condannato da se stesso.
I bambini avrebbero dovuto restare fuori da questa battaglia disumana, qualcuno avrebbe dovuto salvarli, ma nessuno ha pietà dei figli dei nemici.
L’uomo è cosi’ coglione che non capisce che prima di diventare uomo è cucciolo, senza razza, senza certezze, senza quella rabbia bastarda che lo porterà a scannarsi con se stesso e con gli altri.
Bisognava salvare i bambini dai grandi, ma nessuno ci ha pensato, e chi sperava in Dio ora avrà capito che Dio o non esiste o è impegnato in altre cose.
Dove sarà la bambina della foto?
Ho paura di trovarla sdraiata da qualche parte, finta addormentata, in realtà partita per sempre dove non si sa.
La morte dei bambini mi massacra il cuore, me lo calpesta e mi fa sentire tutta l’ipocrisia del mondo.

Questa presunta storia di un ordine naturale nelle cose è una vaccata.
L’unico ordine naturale è nella mancanza di vita, prendete Marte, la luna o Giove.
Lassu’ tutto è perfetto, la materia senza la vita non corre il pericolo di essere sfruttata. Non ci sono interessi, ecco l’ordine naturale.
La mancanza di interessi nei confronti della materia. 

Lo so, fa paura la mancanza di pensiero.
Fondamentalmente l’uomo si accontenterebbe di vivere anche senza il corpo, basta salvaguardare il proprio io, il proprio “ego”, rinunciando alle passioni in cambio del pensiero eterno.
Rinunciando a scopate, masturbazioni e perversioni, ed in cambio la sconfitta dell’unico vero nemico: la morte.
Sto attento a non calpestare una serie di bambole “Barbie”, su un comodino c’è una casetta di legno arredata perfettamente, e un piccolo quaderno con una frase scritta da poco.

Leggo:
Andate tutti a fare in culo….