L’iguana, una storia vera.

Mora, spettinata, incazzata, vuole diventare attrice nel frattempo lavora come cameriera nel miglior ristorante di Sunset Plaza.
E’ li che la conosco.
Si chiama Jenny.
Quando lavora indossa una divisa bianca, sembra un angelo ribelle.
La prima sera che usciamo insieme è vestita completamente di nero, un diavolo in lutto.
Ha una passione sfrenata per l’heavy metal e per il cinema indipendente americano.
“Indipendente da che cosa?” Le chiedo.
“Non ha importanza da cosa, l’importante è che sia indipendente.” Risponde.
Andiamo a cena in un ristorante giapponese a Venice Beach, mentre azzanna un pezzo di salmone mi guarda e mi chiede se ho voglia di vedere il suo bambino.
Il suo bambino? Non mi aveva mai parlato di un figlio. Le dico che va bene, sono pronto a vedere il suo bambino.
Estrae un portafoglio di pelle nera da una borsa nera, lo apre, tira fuori una fotografia e me la porge.
Guardo la foto. Mi aspettavo un umano.
La guardo è le dico: “Ma questa è un iguana!”
“Lo so.” dice, “E’ il mio bambino.”
“Figo.” Le rispondo. “E il papà che fine ha fatto?” Le chiedo sorridendo.
“Non scherzare.” dice “Io gli voglio bene come fosse un figlio, è tutta la mia vita.”
Le faccio qualche domanda sulle difficoltà di crescere un iguana, sono curioso sul tipo di educazione che impartisce alla bestia, poi le chiedo che tipo di dieta riserva al suo cucciolo, quando le domande sul suo bambino cominciano a scarseggiare siamo già a casa mia, sul letto, io sotto e lei sopra.
Lei si è tolta i suoi vestiti neri e per compensazione rimango affascinato dalla sua pelle bianca e liscia.
Le tocco i seni che danzano sopra il mio sguardo.
Lei geme, ondeggia, poi mi dice: “Dobbiamo venire insieme.”
“Dobbiamo…” Rispondo io pensando che queste richieste di sincronizzazione orgasmica sono piu’ facili da porre che da realizzare.
“So io come fare.” Mi dice.
“Come?” Chiedo.
“Strozzami.” Dice.
Forse non ho capito bene. “Come scusa?”
“Strozzami.” Dice lei aggiungendo un gemito alla richiesta.
Si dice che quando si fa l’amore non si riesca a pensare a nulla, falso. In quel momento il mio cervello comincia a girare a tremila giri, sto pensando a cosa intenda dire quando mi chiede di strozzarla.
Lei mi prende la mano,me la appoggia sul suo collo, e sussurra: “Stringi.”
Che cazzo faccio. Stringo…ma non troppo.
“Di piu’.” Chiede, unendo la richiesta ad uno sguardo tra il libidinoso e il sottomesso.
Ok, stringo di piu’, ma non troppo.
“Di piu’, di piu’…stringi che vengo.”
Di piu’ quanto? Non posso mica farle del male…
“Fammi male, ti prego fammi del male.” Urla.
Io sono sempre sotto di lei, non piu’ concentrato sulla mia libidine, ma tutto preso da questa farsa in cui devo assumere l’aspetto di un criminale e lei sembra nata per il ruolo di vittima.
“Ancora…ancora…stringi…di piu’….Vengo…”
Ma vieni in fretta, penso, già immagino gli articoli sul Los Angeles Time, piccolo trafiletto in cronaca nera, Guido Prussia, emigrato italiano, uccide in un sadico gioco amoroso giovane attrice cameriera che a Los Angeles cercava la gloria ed ha trovato la morte.”
“Vengo…vengo…stringi…non ti preoccupare…stringi.”
Ma quando cazzo viene, sembra non respirare piu’, allento la presa, mi afferra la mano, la stringe sul suo collo.
“Cosi’! Cosi! Vengo…………”
E cosi’ venne, appena in tempo, ancora un attimo e avrei staccato la mia presa dal suo collo, ancora un attimo e l’avrei mandata a cagare, ancora un attimo.
Ed invece ora l’avevo sdraiata di fianco a me, il suo sguardo nel mio, felice come è felice una donna dopo aver goduto.
“Ti è piaciuto?” Mi chiede.
“Cosa?”
“Ma non hai sentito che ero nelle tue mani, non hai sentito il potere che avevi su di me, non mi dire che non ti è piaciuto sapere di avere la mia vita tra le tue dita. Ed ora tocca a te.”
Già ora toccava a me, l’orgasmo sincronico non era avvenuto, ero troppo preso dal non esagerare nello strozzarla, figurati se pensavo a godere.
Ed ora toccava a me.
“Fa niente.” Le dico.
“Come fa niente?”
“Non c’è bisogno.”
“Ma io voglio…”
“Vuoi cosa?”
“Voglio farti godere. Devi sentire la tua vita abbandonata alla mia volontà.”
Mi passa le sue mani attorno al mio collo.
“Solo che tu sei un uomo.”
“E allora?”
“E allora devo legarti, sei piu’ forte di me, se non ti lego non mi sentirai mai come la tua padrona.”
Si alza, va verso la cucina. “Dove tieni una corda?” Urla.
Approfitto del momento, mi alzo, mi metto mutande, calzoni, t-shirt in quindici secondi.
Lei riappare.
“Non l’ho trovat…..scusa ma perchè cazzo ti sei rivestito.”
La prendo per mano, la faccio sedere sul letto, io mi siedo accanto a lei.
“Vedi, forse avrei dovuto capirlo quando ho visto la foto del tuo bambino iguana, ma sai quando all’uomo prende la libidine i ragionamenti sfuggono, il problema è che io rispetto il fatto che a te piacciano certe cose, ma io sono piu’ tradizionalista, cioè per me scopare vuol dire stare insieme senza complicazioni legate a desideri sadici o masochistici.”
“Ma se non hai mai provato come fai a sapere che non ti piace.”
“Lo so, si puo’ usare l’immaginazione per capire che effetto farà fare una determinata cosa, se penso a te che mi scopi e mi strozzi o mi viene da ridere o mi viene da pensare che sono un coglione, ma non mi scatta nessun arrapamento.”
“Beh non siamo tutti uguali.”
“Esatto.”
“Ma io ho un vantaggio su di te.” Dice, portando la sua mano sulla cerniera dei miei pantaloni.
“Quale?” Le chiedo.
“Mi hai appena detto che quando ti prende la libidine i ragionamenti ti sfuggono. E so essere anche tradizionalista. Basta chiederlo.”
“Quindi?”
“Quindi chiedimelo, sono in debito con te, ma devi chiedermelo, come se fossi il mio padrone.”
I ragionamenti sfuggono…
“Fammi quello che vuoi, senza strozzarmi, e sopratutto senza azzannarmi l’uccello.”
“Va bene padrone.”
Lo fece nella maniera piu’ dolce e passionale. Io mi lasciai andare a ricevere la mia ricompensa per aver recitato alla grande la parte del carnefice sentimentale.
Poi la accompagnai a casa.
Diventammo grandi amici, a volte facevamo l’amore, ognuno recitava la sua parte, poi a turno ci si applaudiva.
Un giorno si innamoro’, e ci si vedeva solo per bere un caffè, aveva sempre qualche livido da qualche parte.
“E’ stato lui?” Le chiedevo.
“Si” Rispondeva. “Ma glielo chiesto io.”
“E’ un bastardo.” Dicevo.
“No, mi ama.” Diceva. “Ed è un padre perfetto.”
“In che senso?” Le chiesi.
“Dovresti vederlo come va d’accordo con la mia iguana, passano ore a giocare insieme.Sono teneri, proprio come padre e figlio.”
Ci sono frasi che ti fanno sentire solo, questa è stata una di quelle.
Mi immaginai quel perfetto quadretto familiare fatto di botte, sesso e affetto per un figlio con le squame.
La felicità si traveste, per riconoscerla bisogna avere il coraggio di conoscersi, io ero felice della mia solitudine e Marina era felice di aver trovato finalmente un buon padre per la sua lucertola.

Non devo pensare

Ora ti racconto una storia.
Inizia con un pensiero in testa ossessivo:
non devo pensare, non devo pensare, non devo pensare
ma come si fa a non pensare ?
decise di vestirsi ed uscire
camminò per le strade della città fino ad arrivare al mare
a volte si sentiva sbandare e sapeva che cadere avrebbe comportato una figura di merda ma non aveva voglia di prendere il lexotan, poteva farcela senza, bastava fare un passo alla volta
di fronte al mare passava un binario, c’era un ponte per attraversarlo, ma lei decise di non usarlo
guardo’ a destra e poi a sinistra, tutto libero, attraversò il binario e si ritrovò sul lungomare
era bellissima, lo era davvero non per licenza poetica, ma sperava che nessuno se ne accorgesse, per questo si infilo’ sulla testa il cappuccio della felpa e comincio a camminare verso nord, verso la parte di spiaggia che sembrava non finire mai
era consapevolmente dedita all’esercizio di nascondere la fine di ogni cosa
cammino’ fino a che divenne pomeriggio, poi si sedette a pochi metri dal mare e decise di guardare l’orizzonte come se si trovasse a teatro, trasformando qualsiasi cosa accadesse in una volontaria rappresentazione del destino
cercava messaggi
qualsiasi cosa potesse dare un senso a quella giornata
a quella camminata cosi’ faticosa
a quella mancanza di equilibrio
a quella paura di non farcela
a quella voglia di essere amata senza essere toccata
a quel desiderio di appoggiare la sua testa sulla spalla di un gigante che gli giurasse con lo sguardo di difenderla per sempre
e vide onde
una dopo l’altra
e per quanto si sforzasse di coglierne le differenze gli sembravano tutte uguali
come i suoi anni
come i suoi giorni
fino a quando arrivò lei
lei bambina
ferma di fronte al suo sguardo
immobile dandogli le spalle
scomparve il pensiero
dissolto dalla forza esplosiva del ricordo,
di quel giorno in cui a otto anni scappò di casa per il semplice motivo di scappare
come se scappare fosse suonare uno strumento
dipingere un quadro
saltare un ostacolo
e scoprì in un istante come si fa a non pensare
ma quel segreto se lo volle tenere ed aspettò che il sole scomparisse
che “lei” bambina si allontanasse
che il buio gigante la nascondesse
prendendola dolcemente in mano e infilandola nel suo taschino gigante
per poi correre nella direzione dove finisce il mare
e dove nessuno la potrà mai piu’ trovare.

A Virginia, Sylvia, Antonia, Anne e a tutte quelle donne che nessun dio è riuscito a salvare.

A cosa serve leggere?

A cosa serve leggere?
Oggi mio fratello mi ha tolto il dente del giudizio.
E mentre lo estraeva io pensavo al dentista Rubicondo che due volte all’anno si reca a El Idilio per curare i suoi pazienti e per portare due romanzi d’amore ad Antonio Jose’ Bolivar.
Il dentista Rubicondo usa metodi spicci, al posto dell’anestesia fa bere del whisky.
Se qualcuno si lamenta lo prende a male parole dandogli del vigliacco.
A questo pensavo mentre mio fratello Giovanni, il dentista più bravo del mondo, faceva il suo lavoro.
L’anestesia limitava la questione a un fastidioso ravanare della pinza sul dente che ha offerto un po’ di resistenza prima di cedere.
Rubicondo lo incontrai nel libro di Luis Sepulveda, Il vecchio che leggeva romanzi d’amore e la descrizione di quel dentista della foresta non l’ho mai dimenticata.
Oggi seduto comodo su quella poltrona non potevo lamentarmi.
Leggere serve a conoscere le vite degli altri.
Le vite degli altri servono a renderci meno protagonisti della nostra.
E ora mi mangio del gelato e vado a dormire, ma prima mi rileggo quel capitolo.
Un ultima cosa, Rubicondo si faceva consigliare i romanzi d’amore da portare al vecchio da una sua amica prostituta.
Nessuno del resto potrà mai descriverti meglio le caratteristiche dell’acqua di colui che vive nel deserto.

Ci mise sette anni…

Ci mise sette anni per decidersi a fare l’amore con me.
E quando avvenne andai in bilocazione appostandomi sull’angolo in alto della stanza a sinistra del soffitto e rimasi li a guardarmi mentre la baciavo, mentre la annusavo, mentre tutto cio’ che avevo immaginato per sette anni avveniva.
Ed era molto meglio di quanto mai avessi potuto immaginare.
Sette anni non sono pochi.
Ci si arrende molto prima.
Per questo quando mi invito’ a dormire da lei io pensai che due amici possono anche dormire nella stessa casa.
Ma c’era un solo letto in quella stanza.
Quando mi ritrovai sotto le coperte con lei decisi che….
ora o mai piu’.
Passai il mio braccio sotto la sua nuca poi lo piegai e provai a spingerla verso di me.
Mi aspettavo della resistenza e quella resistenza non ci fu.
L’odore era quello che mi ero immaginato per sette anni.
La pelle era quella che avevo immaginato per sette anni.
E lei nuda era ancora piu’ bella di quello che avevo sognato per sette anni.
Questa storia mi ha fatto credere che il tempo non sia mai perso.
Il tempo è una preparazione a qualcosa che esce fuori dal tempo ed entra in un limbo fantastico sospeso in un assenza di logica dove tutto può accadere e quel tutto da un senso alla vita.
E non importa che poi finisca.
Forse è necessario che finisca.
Per riconoscere il diamante nella miniera del tempo e dopo averlo estratto grezzo tagliarlo, trasformarlo in gemma e indossarlo per sempre.

Mio padre aveva ragione.

Mio padre aveva ragione.
Sono finito a suonare sulla strada per qualche dollaro.
Non possiedo un cazzo, nemmeno piu’ la speranza di dimostrare che aveva torto.
Ma ho capito una cosa.
Non c’è nessuna differenza tra me e Bob Dylan.
Nessuna differenza sostanziale.
Siamo entrambi composti da un 70% d’acqua, il resto sono proteine, lipidi, glucidi e sali minerali.
Umano io ed umano lui.
Il fatto che lui sia famoso non lo rende differente da me.
Forse ha una vita piu’ complicata e me ne dispiaccio ma per il resto sono sicuro che anche lui almeno una volta al giorno abbia bisogno di un bagno.
E se anche avesse un cesso con le maniglie d’oro questo non aiuterebbe in caso di stitichezza.
Suonare agli angoli della strada ti fa capire tante cose.
Ora so riconoscere da lontano chi mi butterà qualche dollaro nella custodia della mia chitarra e riconosco ancora meglio chi passerà guardando altrove per non incrociare il mio sguardo.
Lo sguardo di un artista di strada ti mette di fronte alla scelta se osservare la fisionomia di un fallimento o se continuare a credere che il fallimento non ti riguardi.
Qualunque sia la scelta ci sono momenti in cui persino io mi osservo e non posso fare a meno di chiedermi come abbia potuto coltivare sogni di gloria con una voce banale e una tecnica chitarristica nella norma.
Sai cosa frega?
Frega che uno pensa che basti l’intenzione.
Dimenticavo di sottolineare il fatto che mio padre era un violento alcolista e dopo aver passato una infanzia di merda mi sembrava il minimo che la vita mi ricambiasse con un minimo di celebrità.
Cazzate.
La cosa che mi pesa di piu’ è non riuscire a mantenere un figlio.
No, non ho un figlio.
Ma se lo avessi non riuscirei a mantenerlo, e questo mi crea un paradossale senso di colpa.
Neanche una donna.
Neanche una donna riuscirei a mantenere.
Quei pochi spiccioli che guadagno bastano a malapena a non farmi appassire.
Ecco la vera differenza tra me e Bob Dylan.
Non è in cio che siamo, ma in cio’ che possiamo permetterci.
Io posso permettermi solo la solitudine.
Che non è male se messa a paragone con una compagnia interessata.
In tutto questo la cosa piu’ divertente è che canto sempre la stessa canzone.
Raramente una persona mi passa davanti due volte, e se anche fosse se non danno un dollaro la prima volta non lo daranno nemmeno la seconda.
L’umano è prigioniero di se stesso piu’ di quanto non lo sia io della mia povertà.

La tenda col lenzuolo.

Il tempo si diverte a dividere i cuori, il futuro è l’unica risorsa che ci rimane.
Il bambino gioca con un contagocce a disegnare cerchi nella pozzanghera mentre il suo amico incrementa la sua collezione di tappi dei pneumatici, perché una volta i pneumatici avevano i tappini e il rubarli era una sfida troppo bella per non accettarla.
La chiesa stava in cima alla salita, all’interno sotto l’altare c’era un sarcofago di vetro che conteneva il corpo di un frate.
A sette anni mi chiedevo se conservare un corpo servisse a conservare la vita, quando lo chiesi al prete lui mi rispose di si, mentendo, e io andai avanti per un anno a salutare il morto aspettando che mi facesse almeno un cenno con la testa.
Quando mi chiedo che cosa sia la vita io rimango in silenzio ad aspettare una risposta.
Una volta ho sentito un urlo, era una foglia che staccatasi dal ramo precipitava verso terra disperatamente aggrappandosi a un filo di vento che le diede l’illusione di riportarla in alto.
Una volta ho sentito un sussurro, era la voce di una bambina che all’orecchio di un bambino raccontava di quella volta che aveva visto suo padre fare l’amore con sua madre e gli giuro’ che lei non avrebbe mai fatto quella cosa orribile.
Una volta era una canzone che usciva da una finestra e si intravedeva solo un ombra ballare, rimasi ad ascoltare e a guardare.
Poi la canzone finì e l’ombra si fece immobile diventando una macchia sul muro.
Quando mi chiedono: “Cosa vuoi?”
Io abbasso lo sguardo e rispondo che vorrei non aver mai finito il libro più appassionante che ho letto.
Vorrei non aver mai smesso di guardare gli occhi piu’ belli che ho visto.
Vorrei aver stretto per sempre la sua mano che si rifugiava nella mia.
Insomma vorrei liberarmi dal tempo come il prigioniero si libera dalla catena.
E nel caso ti incontrassi e ti riconoscessi vorrei dirti “per sempre” non sapendo di mentire.
Ed è tutto un caso e una scoperta.
Ho imparato a contraddirmi da piccolo quando promettevo di fare il buono per avere una scusa per restare da solo e combinare qualche guaio.
Poi aspettavo la punizione come se fosse inevitabile ricevere dei pugni quando ci si arroga il diritto di fare della vita un gioco meraviglioso.
Andavo a dormire costruendo una tenda con il lenzuolo infilato nella sponda nel letto e nel buio parlavo da solo di tutto quello che sarebbe dovuto essere, dalla neve che non si scioglie all’indiano che diventa amico del cowboy.
Mi addormentavo.
Al risveglio la tenda era caduta ed era tornata ad essere un lenzuolo.

E comunque dura sempre troppo poco.

Ho sul braccio tatuato il nome di una donna che sta con un altro uomo.
Ho nel taschino un pacchetto di sigarette Chesterfield e nel cruscotto una birra calda.
Ho sotto il sedile lo scontrino di una notte con Josephine che andandosene mi disse di chiamarsi Sylvia.
Ho sotto le scarpe l’impronta della terra e al dito porto un anello con la faccia di lupo.
E ho un piccolo sacchetto di pelle pieno di paura che tengo al collo per ricordarmi che devo fermarmi un attimo prima che non possa piu’ fermarmi.
E sono pazzo come un matto che si è tuffato in un fiume di whiskey per dimenticare, ricordandosi appena in tempo che non sapeva nuotare.
Ho una voce stonata che canta, una gamba rotta che corre, ho un occhio cieco che vede nel buio e una mano che cerca sotto il letto la testa del cane per addormentarsi accarezzando qualcosa di morbido.
Ho un cuore che sapeva amare, sapeva cosi’ tanto amare, da consumarsi come si consuma un dentifricio, lo shampoo o la schiuma da barba.
Solo che tra gli scaffali del supermercato non vendono cuori di riserva ma solo tonnellate di cibo e puttanate varie.
Mi hai raccolto trovandomi perso sull’asfalto, ho pensato che se avessi avuto coraggio mi sarei schiuso come un riccio sul palmo della tua mano e ti avrei guardato con due occhi vispi chiedendoti con lo sguardo di farmi grattini sulla pancia.
Ti racconto una storia.
Ho frequentato un bar per molto tempo solo per incontrare una donna.
Ogni notte finiva di lavorare alle tre.
Io l’aspettavo sul retro, si cambiava saliva sulla mia macchina e andavamo in un motel che sapeva di fumo e moquette.
Si faceva l’amore e vedevamo l’alba tutte le mattine.
Duro’ il tempo che dura una sigaretta poi prima che diventasse un mozzicone ci siamo detti addio senza dire una parola.
A volte ho l’impressione che la vita sia una giostra, tu paghi la tua corsa senza sapere quanto dura.
E comunque dura sempre troppo poco.
Come ogni gioco.
Buonanotte.

Niente è come sembra.

Niente e’ come sembra. Niente e’ come appare.
C’è il filtro della nostra interpretazione.
Un po’ come una poesia o una canzone.
Chi la legge o chi la sente non sapra’ mai cosa in realta’ voleva dire chi l’ha creata.
Travisiamo la realta’ riempendola dei nostri desideri e dei nostri sogni.
Un esercizio di liberta’ e’ allontanarsi da noi per osservarci da lontano.
Vedrete il maratoneta arrancare dopo aver percorso pochi passi, vedrete il pittore che non riesce a tracciare una linea, vedrete Rocco Siffredi cercarsi l’uccello o Pamela Anderson chiedersi come mai le sue tette sono cosi’ minuscole.
Vedrete anche l’ignorante citare Socrate, o la puttana recitare un rosario, vedrete un mostro guardarsi soddisfatto allo specchio o una frigida urlare di piacere.
Abbiamo coltivato la consapevolezza come un monaco si prende cura del suo bonsai.
Poi improvvisamente ci siamo dimenticati di recidere i rami e il piccolo albero ha perso la sua identita’.
E’ diventato un cespuglio indefinito.
Che e’ successo al monaco?
Si e’ distratto guardando una signorina vestita con un abito di lino corto che passava ogni giorno sul fondo della valle.
L’ha vista passare velocemente e da lontano.
Quella lontananza mise in moto la fantasia.
E nulla e’ piu’ distraente della fantasia.
Nulla inganna di piu’ della lontananza.
Il monaco vide che il suo bonsai stava perdendo forma, ma non riusciva piu’ a concentrarsi.
Un giorno decise di scendere a valle per vedere da vicino quella signorina.
Si apposto’ dietro una roccia.
E alla solita ora eccola arrivare.
Non ci poteva credere.
Quella signorina era una vecchietta sbilenca, il suo abito di lino era un saio rattoppato e sulle gambe c’erano cespugli di peli.
La osservo’ fino a che non scomparve.
Poi risali’ la montagna.
Arrivato davanti al bonsai rimase qualche minuto pensieroso, cercava di ricordarsi la vecchia forma perduta del piccolo albero.
Non se la ricordava.
Ricomincio’ con cura a tagliare i rami.
E mentre procedeva a tagliare il pensiero scomparve e divenne chiara l’antica forma.
Si dedico’ tutto il giorno alla pianta, piccoli tagli, minuscoli aggiustamenti.
Alla sera si allontano’ di tre passi dal suo lavoro per osservarlo.
Il bonsai aveva ritrovato la forma dimenticata e il monaco aveva ritrovato se stesso.
La mattina dopo alla solita ora passo’ la ragazza con l’abito di lino.
Il monaco sapeva che non era una ragazza e l’abito non era di lino.
Ma decise di immaginarla cosi’ come quando la intuiva da lontano , poteva permetterselo perche’ sapeva che non sarebbe piu’ sceso a valle per guardarla da vicino.