OGNI TANTO CI PENSO

Ogni tanto ci penso a quando andai alla Ricerca del Bisonte Bianco.
Pensavo fosse facile, da una ricerca ero venuto a sapere che l’avrei trovato nel North Dakota.
Andai a Jamestown dove avrei dovuto trovarlo.
Lo vidi dall’Interstate che dormiva pigramente sulla cima della collina.
Era diventato un attrazione turistica all’interno di un Museo dedicato ai Bisonti.
Non poteva essere quello il Bisonte Bianco che cercavo.
Nei miei sogni avevo visto altro.
Decisi di andare verso il Montana.
Per istinto, senza sapere quando e dove avrei trovato un altro Bisonte Bianco.
Poi un giorno scrivo al mio amico Geremia Giangrandi che stava lavorando come cowboy in un ranch nel nord del Montana vicino a dove avevano girato il film: “L’uomo che sussurrava ai cavalli.”
Mi chiese dove stavo andando in giro per l’America e le dissi che dovevo trovare il Bisonte Albino.
Lui tranquillo mi rispose:
“Vieni qui.”
Rimasi in silenzio tre secondi cercando di interpretare cosa volesse dire: “Vieni qui”.
Poi chiesi: “Perchè devo venire li?”
Perchè qui c’è il Bisonte Bianco.
Non volevo crederci.
Quella notte guidai anche di notte per arrivare il più presto possibile.
Arrivai di mattina e Geremia mi portò di fronte al bisonte.
La mia ricerca era finita.
E tutto avvenne come avevo sognato.
Guardai l’enorme animale negli occhi per qualche secondo facendogli una domanda che portavo con me fin da bambino.
E la sua risposta mi tranquillizzò.
Rimasi in Montana qualche giorno poi mi diressi verso Sud in direzione Yellowstone.
Sapete cosa ho imparato quel giorno.
Che ci sono storie che puoi raccontare a chiunque e storie che puoi raccontare a te stesso mille volte senza annoiarti mai.
Quella storia era una di queste storie che è più bello raccontare a se stessi che agli altri.
Perchè gli altri non potrebbero capire.

Gi piacevano i suoi piedi


L’uomo appoggiò gli occhiali sul comodino e si sedette sul bordo del letto guardandosi i piedi appoggiati sul legno.
Gli piacevano i suoi piedi.
Sapevano raccontare la strada come uno sguardo sa raccontare ciò che ha visto.
Aveva la gola secca e un fondo di bottiglia di acqua gasata che non era più gasata.
Erano anni che aveva smesso di porsi le domande che da giovane gli venivano sempre prima di andare a dormire.
Si era arreso alla corrente.
A proposito della corrente, chissà che fine aveva fatto quella formica capitata non si sa come su quella foglia che in balia del ruscello procedeva verso una destinazione ignota.
Era stata una giornata strana.
Lui che percorreva la Highway 5 verso Los Angeles, lei che a migliaia di chilometri di distanza le mostrava al cellulare appoggiato contro il vetro del van come era brava a toccarsi pensando a lui.
La lotta fra la libidine che saliva e l’attenzione dovuta alla strada.
Lei che gli diceva di toccarsi mentre guidava e lui che le diceva di smettere senza sapere più dove guardare.
All’improvviso sulla destra compare un area di sosta, si butta dentro, ferma il van proprio nel momento esatto in cui lei decide di venire e con aria goduta lo guarda togliere le mani dal volante dicendo: “Troppo tardi, quà sono le sei del mattino e domani devo lavorare. Vado a dormire.”
Esce dal van sbattendo la porta e lasciando le chiavi dentro.
C’è solo un modo per rientrare, spaccare il vetro.
Tutto questo avviene a Lebec, a qualche centinaio di metri da Castac Lake, il lago più inutile del mondo, cosi’ salato che nessun pesce riesce a sopravvivere in quell’acqua.
Tira un pugno al vetro.
Mette in moto e via verso sud, verso Los Angeles.
Arriva al tramonto, giusto il tempo di vedere l’ultimo pelo del culo del sole cadere nel mare.
Entrato in casa apre il frigo sperando in qualche resto della settimana prima.
Non c’è un cazzo.
Lei starà dormendo.
Tutti staranno dormendo dall’altra parte del mondo.
La solitudine a volte è solo una questione di fuso orario.
Va in camera, appoggia gli occhiali sul comodino e si siede sul bordo del letto guardandosi i piedi appoggiati sul legno.
Gli piacevano i suoi piedi.

Avevo fame

Avevo fame.
Ma il market era chiuso.
Era cosi’ bello che mi fermai a fotografarlo.
Bello e abbandonato.
La città si era spopolata qualche anno prima quando una Highway rubò il traffico alla Interstate.
Se nessuno passa nessuno si ferma e se nessuno si ferma nulla si vende.
L’economia non guarda in faccia nessuno, figuriamoci un povero meraviglioso market adagiato sul fondo di una valle.
Anche i ragazzi più belli e delicati vengono lasciati per qualche cafone pieno di soldi che promette un futuro migliore.
Nulla da meravigliarsi se di fianco alla Highway ci sono mille ruspe che stanno preparando il terreno su cui sorgerà un megagalattico supermercato.
Sarà maestoso, imponente, luccicante e dannatamente sfarzoso ma non avrà mai il fascino irresistibile e decadente delle cose e delle persone che non hanno mai avuto bisogno di grandi insegne per farsi notare e trovare.

29 Palms Inn

Si chiama 29 Palms Inn e si trova a Twentyone Palms in California.
E’ un motel in mezzo al deserto che ha il fascino dei luoghi che raccontano storie.
Nulla di elegante, bungalow e stanze piccole e fatiscenti, niente frigo e niente lavanderia.
Solo il mito del viaggio americano che prende forma e sostanza.
Luogo non adatto ai fighettini che si aspettano un ottimo servizio e magari di fare bella figura con le loro fidanzate fighettine.
Al 29 Palms Inn c’è una piscina che è l’unica oasi di fresco in mezzo al deserto e tramonti che danno un senso alla vita.
Quando andai io non c’era il wi-fi, e lo misi tra i pregi di questo motel.
Speriamo non ci sia nemmeno oggi.

Desert Palms Motel di Mesquite

Al Desert Palms Motel di Mesquite faceva troppo caldo e tu giravi troppo nuda per la stanza.
“Non è mai troppo.” Mi hai detto.
“E’ il segno del costume che mi frega.” Le dissi.
C’era uno scarafaggio che si arrampicava in free solo sulla tenda e restammo a guardarlo compiere la sua impresa poi hai preso un pacchetto di sigarette vuoto, lo hai messo dentro e l’hai liberato sul cemento di fronte alla porta d’ingresso.
“Qualcuno lo pesterà.” Ti ho detto.
“Può essere..” Mi hai risposto.
Tagliasti i jeans con una forbice per farne degli shorts.
“Ti da fastidio se giro col culo di fuori?”
Hai cominciato a tagliare più in alto possibile senza nemmeno aspettare la mia risposta.
Detto fra noi Mesquite era un posto di merda ma ci sono donne che hanno il potere di rendere indimenticabili anche dei posti di merda.
E tu eri una di quelle. 

Parlavo con lei

Parlavo con lei che aveva il viso appoggiato sul cuscino.
Ci si guardava come se fossimo stati sdraiati nello stesso letto con un Pacifico o un Atlantico di mezzo.
Avevo appena goduto di un tramonto che persino io, non appassionato di tramonti, sono stato costretto a ricredermi.
Ero seduto su una roccia guardando il gigante rosso tuffarsi in mare e divincolarsi diventando di mille colori fino a soccombere stremato di fronte a un guerriero blu che apriva la strada all’imperatore nero.
Poi mi sono buttato nel letto nella parte posteriore del van e su Netflix ho cominciato a guardare un documentario sulla vita e la carriera degli Eagles.
Erano le otto e un quarto di sera.
E mentre Joe Walsh raccontava quanto erano belli quegli anni settanta io mi sono addormentato.
Sono le 22 e 36 e mi sono risvegliato da poco con una sensazione meravigliosa di felicità.
Sono nel van, ho sognato la storia degli Eagles, mi sono guardato intorno e ci ho messo qualche secondo a capire che non è mattina ma solo l’inizio della notte.
I cani dormono di fianco a me e sembra non abbiano nessuna intenzione di svegliarsi.
C’è qualcosa di magico in questo risveglio fuori orario, come se fossi tornato da una qualche avventura, come se non avessi dormito ma camminato su un sentiero che portava all’Hotel California.
Ora faccio una passeggiata sulla spiaggia e guardo l’oceano con la luce della luna e poi me ne torno a dormire e ricomincio a vedere il documentario sugli Eagles perché mi manca la fine della storia.
So già che mi addormenterò prima che la fine arrivi, ma questo fa parte dei privilegi concessi dal sonno.