Nebraska

Un tempo collezionavo ragazze, oggi colleziono chitarre.
Ho attraversato il Nebraska senza fare una foto, e a volte mi chiedo se lo attraversai veramente o se passai dall’Iowa al Wyoming volando con il mio Chevy da Omaha a Douglas.
Anni fa mi feci leggere le linee della mano barattando la previsione del mio futuro per una notte passata nel letto della maga che aveva gli occhi e i capelli corvini e mi ricordava una squaw che avevo visto in una foto di Edward Sheriff Curtis.
Ho ricordi di un mare che confina col deserto, di un lago prosciugato dove sopravvivono i croupier di un Casinò abbandonato e diventato rifugio di coyote e volpi.
Ho passato più tempo a parlare con me che di me, ho detto ti amo più volte ai miei cani che a tutte le donne con cui ho fatto l’amore.
A Fargo mi persi nel tentativo di trovare la casa di Amelia, ma la casa di Amelia trovò me mostrandomi un camino fumante.
“Mi sto asciugando davanti al camino.” Mi disse.
E a ferragosto c’era solo un camino fumante in tutta la città.
Ho parlato con un bufalo sapendo che non poteva capirmi, e ho avuto l’impressione che mi capisse meglio della maggior parte degli umani con cui ho parlato certo che potessero capirmi.
Ho trovato un serpente sotto il letto e gli ho aperto un portellone invitandolo a uscire.
E lui è uscito.
Prima di scomparire si è girato a farmi l’occhiolino.
Ho visto un tramonto oscurato da uno stormo di uccelli in volo, e da quel giorno il miglior tramonto che vidi divenne quello che non ero riuscito a vedere.
Ho coltivato la mia solitudine come se coltivassi un giardino nel deserto, smettendo di meravigliarmi dei fiori morti e trovando consolazione nella consapevolezza dell’inevitabile sconfitta di chi cerca acqua tra la sabbia.
Oggi ho bisogno di amore come un cane ha bisogno di un osso.
Non per nutrirmi ma per passare il tempo.
Nessun osso può valere più della carne che c’era attorno.
E tutto ciò che ho imparato nella vita è che la gente è pazza o stupida.
Confonde la luce col buio, l’amore con l’odio e il bene col male e se tu cerchi di farglielo notare ti dicono che il pazzo sei tu perché chiudi gli occhi di fronte al sole, ami chi ti ama e il male ti provoca dolore.

Vorrei possedere

Vorrei possedere il tempo che ho vissuto
incontrare di nuovo il mare del Pacifico
rientrare nella stanza di quel Motel con te al mio fianco
vorrei ricominciare il viaggio e ripartire dall’inizio
quando ti vidi per la prima volta
e per la prima volta te ne sei andata
lasciandomi solo con il desiderio di riempire
la solitudine con la tua presenza.
Vorrei possedere i ricordi
quelli belli sparsi in giro
da sbatterci contro per caso
e riviverli all’infinito
quelli brutti tenuti sotto chiave
sottomessi alla volontà di andarli a cercare
quando ho voglia di imparare
cosa mi ha fatto cambiare.
Vorrei possedere gli odori
e sentire il profumo della tua pelle e dei tuoi vestiti
come fosse una prova che io e te
siamo realmente esistiti
e veramente ci siamo scambiati i sapori
come da piccoli ci si scambia segreti
che nessuno deve sapere.
Vorrei possedere il desiderio
per non farlo finire mai
e te lo regalerei
perché senza di te non saprei che farne
non so che farne
non ho saputo che farne.
Vorrei che quando me ne andassi
ci fossi tu a salutarmi
vorrei poterti dire
che dovunque vada
troverò il modo per ritrovarti.
Sono quel che vorrei
e mi hai amato per i miei desideri
senza giudicarli mai
anche se volevo incatenarmi alla libertà
mi hai visto iniziare
e mi hai visto finito
solo tu conosci il significato
di tutte le spiegazioni
che non ho mai voluto dare
perché volevo farmi amare
senza l’aiuto delle mie ferite
senza doverti spiegare come e se
fossero guarite.
Essere amato per la mia pelle
e non per le cicatrici.

e non capisce niente

Anche una tigre è stata un gattino.
Anche uno stronzo è stato un bambino.
E’ il tempo che cambia le cose
un tempo bastava sfiorarle la mano
oggi ti stufa anche fare l’amore.
Che poi amore non è più ma solo quel che resta,
il cono del gelato,
i titoli di coda del tuo film preferito,
la schiuma dell’onda,
l’ultima macchia di neve sul prato.
Sono lo stronzo che vive con la tigre
lei mi vede ancora bambino
io la vedo ancora gattino
crescendo insieme non ci siamo accorti
della trasformazione.
Avrei dovuto innamorarmi a sei anni
e sposarla a otto anni
poi saremmo rimasti piccoli
diventando grandi insieme
trasparenti al tempo
e ai giudizi della gente
che dell’amore parla e parla
e non capisce niente.

Non mi è mai venuta voglia di sentirti mia

Non mi è mai venuta voglia di sentirti mia.
Sono contrario al possesso di qualsiasi essere vivente.
Persino i miei cani e il mio gatto non mi appartengono.
Conviviamo e basta, io raccolgo le loro cacche e provvedo al cibo loro provvedono a riscaldarmi i piedi di notte.
Non mi è mai venuta voglia di vederti lavare i miei piatti sporchi.
Non ho mai preso una lavastoviglie perché lavare i miei piatti sporchi mi piace ed è un modo per prendermi cura di me.
Non ho mai pensato che potessimo desiderarci per sempre, o forse si, forse l’ho pensato ma solo le prime volte quando qualsiasi cosa si pensi non vale un cazzo perché si è troppo presi dal fatto di essere sorprendentemente e nuovamente innamorati.
Il bolero di Ravel mi annoia anche se tu lo ami.
Tu rimani indifferente al calcio anche se ti ho portato allo stadio e non hai mai capito cosa fosse il fuorigioco.
Fuorigioco, come sono io, quando indecisa se prendermi o lasciarmi chiedi consiglio alle tue amiche.
Nessuno dei due ha mai detto “per sempre”, nessuno dei due cerca di essere migliore, nessuno dei due sa cantare ma cantiamo lo stesso.
Fondamentalmente siamo due canzoni con gli stessi accordi ma con una melodia differente.
Titolo: Indifferenti alle mode.
Se esisto tu ancora non lo sai.
Se esisti io ancora non lo so.
Ma salvami se mi vedrai cadere.
Ti salverò se ti vedrò inciampare.
E poi che bello sdraiarsi sulla neve e disegnare due sagome con le braccia allargate ad aspettare qualcosa che non vediamo arrivare.
Fai finta di niente se la neve diventa fango, fai finta di niente se la pioggia cade sul cemento, fai finta di niente se a volte di tutto non rimane niente.
Rimane il fatto che ci piace ballare in casa senza bisogno di uscire.
Sembra poco ma basta per avere ancora voglia di respirare.

Siamo sopravvissuti al ciclone

Siamo sopravvissuti al ciclone,
non ci siamo arresi di fronte alla tempesta,
aggrappati all’ultimo albero rimasto,
bagnati di pioggia al freddo,
trascinati dal vento,
vivi sotto le macerie di un passato del cazzo,
affezionati a ricordi ormai lontanissimi e
confusi nella nebbia, sudati per le rincorse,
tremanti per le illusioni perse,
pronti a giurare dell’esistenza di un nuovo mondo
e di una nuova vita,
graffiati dai rovi e dalle unghie degli avvoltoi,
incapaci di riconoscerci nella nostra ombra,
ubriachi di vita e di fiato.

Cos’è la felicità?

Cos’è la felicità?
Attenti alla risposta più semplice.
La felicità non è essere felici.
La felicità, per chi lo sa comprendere, è non essere infelici.
La felicità non è realizzare i propri sogni.
La felicità è avere ancora la forza di sognare.
La felicità non è viaggiare ma organizzare il viaggio.
La felicità non è essere amati ma avere ancora la voglia di amare.
La felicità non è essere bambini la mattina di Natale, la felicità è sapere che milioni di bambini stamattina si sono svegliati eccitati e felici per quello che avrebbero trovato sotto l’albero.
La felicità non è altro che la capacità di sentirsi vivi catturando con lo sguardo il movimento del colibrì che succhia vita dalla corteccia dell’albero.
La felicità non è il sesso.
La felicità è l’amore.
La felicità non è lo zucchero ma il cacao.
La felicità non è possedere uno strumento musicale ma imparare a suonarlo.
La felicità non è.
Noi siamo.

Mi sono perso

Mi sono perso.
Ma non per strade sconosciute.
Mi sono perso dentro dove pensavo di conoscermi meglio.
Mi sono perso e mi perdo ancora nella ricerca di spiegazioni che non esistono.
Mi perdo nel cercarmi, mi perdo quando voglio sperare che nessuno mi trovi, mi perdo negli occhi che non mi hanno guardato, nelle braccia che non mi hanno mai abbracciato e negli sguardi che non mi hanno mai visto.
Mi perdo nei dubbi, sbaglio strada volontariamente per non essere costretto ad arrivare, cerco i luoghi che nessuna mappa conosce per sentirmi privo di punti di riferimento, voglio poter pensare che qualche luogo non è stato ancora scoperto e in quel luogo forse troverò quello che cerco.
Mi perdo perché da sempre coltivo il dubbio tra chi dice di avere certezze, cerco le lacrime di gioia, cerco il silenzio che non ti fa dormire, cerco l’assoluto nel relativo.
Voglio smarrirmi come fossi un cane che insegue nel bosco l’odore di una preda e corre, corre, corre perdendo di vista i suoi padroni fino a ritrovarsi di fronte a se stesso e alla sua fame ritrovando la sua anima selvatica che ogni maledetta ciotola quotidiana aveva addomesticato.

Non chiamatelo viaggiare

Non chiamatelo viaggiare.
Chiamatelo spostarvi.
I viaggi sono finiti anni fa.
Sono finiti da quando i navigatori hanno sostituito le cartine geografiche.
Sono finiti da quando lo smartphone ha reso inutile il cercare una cabina telefonica.
I viaggi sono morti con la globalizzazione e non aspetti più di essere in Grecia per mangiare un souvlaki o in America per comperare quelle scarpe di ginnastica che solo in America potevi trovare.
Viaggiare è diventato solo un mezzo per convincerti che quel posto che hai visto su Internet esiste davvero, e tra poco col “metaverso” basterà mettersi un paio di occhiali per camminare su una spiaggia alle Maldive mentre annusi l’odore della bistecca che stai cuocendo per cena.
Quelli che hanno una certa età si ricordano cosa vuol dire viaggiare.
L’emozione di vedere un luogo mai visto prima.
L’emozione di perdersi.
L’emozione di sentirsi davvero stranieri in un paese straniero.
L’emozione di chiedere dove si trovasse quel luogo.
L’emozione di scoprire tradizioni o usanze sconosciute.
L’emozione di gestire un rullino da 20 foto sapendo che ogni foto avrà il valore inestimabile del ricordo stampato e reso eterno.
L’emozione di farsi amici che vivono lontani e raccogliere i numeri di telefono e gli indirizzi in un quaderno per poi scrivere lettere che per arrivare fanno lo stesso viaggio che tu hai fatto per ritornare.
Ricordo quando millenni fa prima del tramonto mi persi dietro una duna nel deserto a sud di Ouarzazate.
Non avevo gps, ne cellulare e aspettai che calasse la sera per veder apparire la stella polare che mi indicava il nord.
E a nord dovevo andare per tornare da dove ero partito.
Oggi pochi viaggiano davvero, molti si spostano.
E condividono i loro spostamenti nel tentativo di impossessarsi del fascino di un luogo per accrescere il loro fascino.
Si usano i viaggi per far vedere quanto si è ricchi, quanto si è coraggiosi o quanto si è stronzi.
Una volta si chiamavo viaggiatori, oggi si chiamano Travel blogger, una volta si tornava ricchi di esperienze vissute, oggi si rimane in vacanza tutta la vita nel tentativo patetico di creare invidia mentre si è intenti ad abbronzarsi le chiappe su qualche spiaggia tropicale.
Ma non chiamatelo viaggiare.
Chiamatelo spostarvi.
Per rispetto di quei pochi viaggiatori che ancora oggi sanno rinunciare alla droga dell’esibizionismo per coltivare l’arte del raccontare senza cedere alla tentazione del raccontarsi.

Il talento è bellezza

Il talento è bellezza ma la bellezza non è talento.
Per questo perdo la testa per la pianista che suona Rachmaninoff o sogno di partire per un viaggio infinito con la scrittrice che ha saputo mostrarmi l’anima nascosta.
Il talento è il fascino che se ne fotte dell’età, è il sapore che cercavi baciando la sua pelle, è l’odore che desideravi sentire sfiorandole il collo.
Il talento è sensibilità, empatia, la naturalezza con cui si trasformano le emozioni in musica o parole.
Il talento è bellezza.
La bellezza non è talento.
La sottile differenza che c’è tra l’essere attratti dalla persona per quello che è o l’essere attratti per quello che appare.
Non lamentatevi della superficialità di cui abusate per compiere le vostre scelte.

Le parole sono una cosa seria

Le parole sono una cosa seria.
Sono suoni che evocano spiriti benigni e spiriti malvagi.
Sono formule magiche che guariscono o fanno ammalare.
Servono per dire la verità o per dire bugie, a volte non servono a nulla e sono gettate via come cibo mai mangiato o abiti mai indossati.
Le parole possono scambiarsi di posto, rimanere le stesse e diventare irriconoscibili, prigioniere di una convenzione o di un pregiudizio.
Sto bene, mi dico, e mi sento di star meglio.
Sto male, e mi sento di star peggio.
Le parole possono farti apparire straordinario anche se non sai fare nulla di straordinario.
O ti fanno sembrare un idiota quando in silenzio sembravi invece così intelligente.
Le parole possono essere zavorra o peso superfluo, possono essere acqua o siccità.
Sono l’unico modo per sentirti vivo e il primo segnale che fa capire quanto tu sia morto dentro.
Le parole sono un astronave che se non la sai guidare ti perdi nello spazio immenso del tuo nulla.
Ma se per caso dopo un eterno vagabondare nell’infinito hai avuto la memoria e l’intelligenza di capirne il meccanismo puoi dirigere la tua astronave verso nuovi mondi da esplorare.
Le parole sono combinazioni sonore che aprono o chiudono porte.
Con l’incredibile potere magico di assumere aspetti diversi a seconda di chi le pronuncia.
Un coglione che dice ti amo non dice nulla.
Un anima sensibile che dice ti amo dice tutto.
Le parole sono una cosa seria.
Così seria da doverne valutare il pulpito prima che la predica.