Le parole sono una cosa seria

Le parole sono una cosa seria.
Sono suoni che evocano spiriti benigni e spiriti malvagi.
Sono formule magiche che guariscono o fanno ammalare.
Servono per dire la verità o per dire bugie, a volte non servono a nulla e sono gettate via come cibo mai mangiato o abiti mai indossati.
Le parole possono scambiarsi di posto, rimanere le stesse e diventare irriconoscibili, prigioniere di una convenzione o di un pregiudizio.
Sto bene, mi dico, e mi sento di star meglio.
Sto male, e mi sento di star peggio.
Le parole possono farti apparire straordinario anche se non sai fare nulla di straordinario.
O ti fanno sembrare un idiota quando in silenzio sembravi invece così intelligente.
Le parole possono essere zavorra o peso superfluo, possono essere acqua o siccità.
Sono l’unico modo per sentirti vivo e il primo segnale che fa capire quanto tu sia morto dentro.
Le parole sono un astronave che se non la sai guidare ti perdi nello spazio immenso del tuo nulla.
Ma se per caso dopo un eterno vagabondare nell’infinito hai avuto la memoria e l’intelligenza di capirne il meccanismo puoi dirigere la tua astronave verso nuovi mondi da esplorare.
Le parole sono combinazioni sonore che aprono o chiudono porte.
Con l’incredibile potere magico di assumere aspetti diversi a seconda di chi le pronuncia.
Un coglione che dice ti amo non dice nulla.
Un anima sensibile che dice ti amo dice tutto.
Le parole sono una cosa seria.
Così seria da doverne valutare il pulpito prima che la predica.

Non hai trovato nulla

Non hai trovato nulla.
Quell’asse di legno traballante sul pavimento ti aveva illuso.
L’hai sradicata con un piede di porco e hai trovato solo un buco vuoto.
E ora te ne stai seduta su quella seggiola di legno con il culo e la schiena appoggiati su una vecchia imbottitura di velluto azzurro.
Le mani sporche di ruggine e lo sguardo verso quell’inutile illusione.
E non hai nemmeno chiuso la porta.
Entra il vento dell’autunno e l’odore delle foglie bagnate.
Hai lasciato seccare i fiori in un vaso d’argento, hai riempito i barattoli di profumi, hai preparato la tua vita come si prepara una tavola prima della cena.
Se ci fosse qualcosa da mangiare e da bere stasera avresti festeggiato il ritorno che non c’è stato, la neve che non è caduta, la bilancia che non pesa più e la catena appesa alla trave che oramai serve solo a tenere prigioniera se stessa.
Ogni volta mi chiedi perché ti amo.
E ogni volta ti dico che amo come tieni le mani strette tra le gambe, amo i tuoi piedi in bilico con le dita sulla traversa della sedia, amo come guardi il nulla come se ci vedessi tutto.

Il tempo ci divide

Il tempo ci divide.
Divide quello che siamo da quello che eravamo.
Ha allontanato me adulto da me bambino.
Lasciandomi incapace di gestire un eredità scomoda di paure e sofferenze.
Poi un giorno mi sono fermato.
Ho guardato nell’angolo della stanza e l’ho visto.
Un bambino impaurito rannicchiato contro il muro con lo sguardo impaurito.
Mi guardava.
Mi sono avvicinato e ho allungato una mano.
Lui ha afferrato la mia mano grande con la sua mano piccina.
Gli ho detto: “Guido non avere paura. Ora ci sono io a proteggerti.”
Ho visto una lacrima infinita solcargli una guancia. Poi si è tirato su e si è lasciato abbracciare.
Ci siamo abbracciati.
Io ero lui, e lui sarò io.
Il passato che si affidava al futuro.
Il futuro che metteva una medaglia da combattente al petto del passato.
E da allora camminiamo insieme.
Un vecchio e un bambino, uniti dai ricordi di una vita condivisa.
E la guerra è finita.
Da allora abitiamo in una casa dove ci sono libri e fumetti, chitarre e giocattoli, cose di oggi e cose di ieri.
A volte ci guardiamo negli occhi.
Grazie Guido per essermi venuto a prendere.
Grazie Guido per avermi aspettato.
Io grande e io piccolo.
Insieme giochiamo ogni giorno al gioco della vita sapendo che non ci lasceremo mai più.
E il destino è tornato ad essere condiviso come le guerre vinte e le guerre perdute.
Il tempo non ci dividerà mai più.

Tu che ne sai

Tu che ne sai? Tu che ti sei sempre accontentato.
Che ne sai dell’aspettare. Che ne sai della solitudine.
Hai preso barche senza sapere dove ti portassero per la sola paura di dover aspettare quella giusta.
Non ha senso che ti lamenti. Non ha senso che ti getti in pasto ai rimpianti.
Ti vedevo ridere quando salivi a bordo e mi vedevi sulla banchina con il mio zaino, mi hai deriso mentre ti allontanavi verso il mare aperto guardandomi diventare un piccolo puntino nero isolato sul grigio cemento.
Cosa aspetti a fare? Mi dicevi.
Tanto tutte le navi sono uguali. E chissenefrega dove vanno, basta andare.
No, non basta andare.
Io voglio andare su quell’isola e voglio raggiungere solo quella.
Non la troverai mai. Mi dicevi.
Forse hai ragione, ti rispondevo.
Ma non potrai mai sapere cosa significa aspettare quella giusta, tra aspettative e delusioni c’è lo spazio rassicurante della speranza.
E quando arriverà la barca giusta semplicemente mi imbarcherò con la certezza di godermi il viaggio come gode chiunque abbia imparato che in mare aperto ogni orizzonte si assomiglia e a fare la differenza è chi ti aspetta al porto d’arrivo.

Sfogo

Il problema delle parole è che sono date in pasto agli uomini.
Uomini che ne fanno un uso smodato e patetico con il solo scopo di alimentare il loro ego atrofizzato.
La parola non deve essere la freccia ma deve essere l’arco.
La freccia è l’intenzione. Il bersaglio ci mostra quanto e dove le nostre parole hanno colpito. Accendendo la radio o la televisione, leggendo i social, o tentando di leggere libri contemporanei, mi accorgo di come le parole siano usate con il solo scopo di fare marketing di se stessi o del prodotto di cui quelle parole fanno parte.
Chi legge dimentica troppo facilmente che non sono le parole a determinare chi le pronuncia ma i fatti che nessuna parola può confermare.
I fatti si confermano solo nella prova che siano effettivamente avvenuti.
E solo i testimoni oculari possono credere a ciò che hanno visto.
Nel momento in cui i fatti vengono raccontati subiscono il filtro dell’interpretazione e diventano non più credibili a meno che il raccontatore non abbia dato prove inequivocabili di possedere la virtù dell’onestà intellettuale.
In un paese che premia i paraculi l’onestà intellettuale è dote rarissima.
Per concludere un consiglio: non fatevi fottere da chi sa usare bene le parole.
Ogni scritto è come una casa che può apparire bellissima dal di fuori ma che entrandoci dentro può rivelare di essere solo una facciata di cartapesta che nasconde il nulla.

Virginia

“Ogni volta che succhio la penna mi tingo le labbra d’inchiostro.”
Scriveva Virginia Woolf il 29 Giugno del 1932.
Mi innamorerei di lei solo per questa riga del suo diario.
Fondamentalmente cerco emozioni semplici, corde senza nodi, strade dritte che puntano all’orizzonte e una donna con un talento verso una naturale sensualità capace di non farsi sputtanare dalla ricerca di una tecnica amorosa perfetta o da un passato fatto di delusioni.
Quanto è difficile spiegare qualcosa di semplice a chi cerca nelle complicazioni una ragione di vita.

L’emergenza di essere amata

Quando sei presa dall’emergenza di essere amata ti fai travolgere dai ricordi per ritrovare una prova dell’amore che hai ricevuto.
Cerchi in un baule quel vestito che ti ricorda giorni in cui eri desiderata e lo indossi per poi guardarti allo specchio e ritrovarti a cercare lo sguardo assente di chi se ne è andato.
E’ che a volte non capisci perché sia così difficile trovare qualcuno da amare.
Poi pensi che non avresti sposato nessuno dei mariti che hanno scelto le tue amiche e capisci che hai semplicemente ambizioni più grandi e che non hai mai mai imparato ad accontentarti.
Sei fedele ai tuoi ideali e dopo aver imparato a stare da sola non sei più disposta a regalare amore in cambio di compagnia.
Milioni di solitudini vanno a dormire chiedendosi in cosa sono sbagliate senza accorgersi di essere semplicemente troppo consapevoli di ciò che è vero per lasciarsi abbagliare dalle menzogne dell’amore.

Spoon River

Rimanemmo chiusi all’interno del cimitero di Lewistown alla ricerca delle tombe del Giudice Somers e dell’ubriacone Chase Henry.
Passammo la notte nel van mentre dal finestrino si vedeva una enorme quercia rossa illuminata dai lumini incredibilmente ancora accesi dopo una giornata di vento e pioggia.
Tu mi dicevi che era un miracolo io sostenevo la tesi di una di quelle botte di culo che permettono agli uomini di sopravvivere dopo un incidente.
Ti faceva ridere l’idea che un lumino funerario potesse avere una botta di culo, oltre al fatto che ci misi mezz’ora a tradurre “botta di culo” in un inglese che ti fosse comprensibile.
Dormimmo fino al giorno dopo senza mai avegliarci e come accade quando si dorme in viaggio quando mi svegliai rimasi per un attimo indeciso sul luogo in cui mi trovassi.
Poi mi girai e appoggiato in fondo al letto c’era il libro di Spoon River e ricordai.
Tu stavi già preparando il caffè
Jackson stava facendo la cacca ai piedi della quercia e un corvo si era venuto a posare sul ferro che teneva in piedi la statua di bronzo barcollante di un bambino che orgoglioso si guardava il suo guanto da baseball.
Il bambino riposava a poche decine di metri dalle ruote della nostra casa viaggiante.
Si chiamava Charlie e c’erano fiori freschi a ricordare che qualcuno lo ricordava.
C’era una nebbiolina leggera di quelle che si arrendono facilmente all’arrivo del sole, camminammo scalzi sull’erba bagnata, eri tu che dicevi che camminare scalzi sull’erba bagnata faceva bene e a me piaceva crederti, crederti sempre, sopratutto se le cose che dicevi erano incredibili.
Alle otto una signora che teneva un gatto nero in una borsa aprì il cancello, ci vide ma fece finta di non vederci.
Tu raccogliesti un sasso e dopo averlo portato a Charlie mi dicesti che eri pronta per andare.
Lasciammo Lewinston, prendemmo la Route 97.
Direzione Sud.
Anzi Nord.
A dire il vero non sapevo.
Bastava andare.

Luce piccola sostituisce luce grossa

Luce piccola sostituisce luce grossa.
Quasi buio tranne che attorno ai pensieri.
Se avessi l’opportunità di cambiarmi cambierei la voglia che ho di amare alzandone il volume fino ad assordarmi il cuore.
Assopito nella mia solitudine sono raggomitolato su me stesso scaldandomi il petto con le gambe.
Il mondo cambia e io non ci sto dietro.
Dalla Tv a bianco e nero al colore.
L’arrivo dei computer, i telefoni portatili, gli smartphone , internet e il trionfo delle relazioni virtuali.
E per finire il virus.
Cammino senza vedere bocche e nasi, sembri bellissima dagli occhi ma non saprei riconoscerti fuori dal ballo in maschera.
Non si vedono sorrisi e nemmeno smorfie, il dolore viene tenuto dietro il sipario della nostra incolumità, ci rimane la paura di morire a farci sentire più o meno vivi.
Ripenso a come era inconsapevolmente bello camminare senza paura tra gli aliti altrui.
La paura.
Un arma infallibile la paura.
Uccide senza uccidere, ferisce senza ferire, ti azzittisce col silenzio.
Cosa rimane di me?
A parte l’indecisione di credere se sia meglio salvarsi in un mondo di merda o lasciarsi soccombere prima di imparare a nuotare nella merda.
Ho la sensazione di essere un dente sul punto di essere devitalizzato con la scusa di essere salvato.
Devo trovare un sistema per resistere senza cedere alla tentazione di far parte di una resistenza ridicola e egocentrica.
Cerco compagni di viaggio per realizzare un pellegrinaggio nel luogo dove da sempre appara la Madonna degli Atei per rivelare la sua inesistenza, insieme possiamo formare un simbolico rosario che ci ricordi di celebrare un quotidiano “vaffanculo” da dedicare all’arroganza cinica del potere.
Siamo pellerossa pallidi circondati da gringos a caccia dell’oro, non c’è dubbio che perderemo la guerra, la nostra vendetta avverrà col tempo, quando ai devitalizzati verrà voglia di imparare cosa fosse la vita e non troveranno più nessuno che potrà insegnarglielo.

L’unica salvezza è la fuga

L’unica salvezza è la fuga.
Anche non sapendo bene da cosa debba fuggire ho la sensazione che l’umanità si stia fottendo il cervello.
Il passaggio dal mondo analogico al mondo digitale ha reso più facile l’addomesticamento di massa e il prossimo passo sarà un umanità fatta di servi.
Il potere temendo la forza rivoluzionaria di un popolo affamato ha deciso che il metodo migliore per renderci sudditi è creare nuove dipendenze tecnologiche che hanno il doppio scopo di controllarci e di accontentarci.
Avremo sempre più bisogno della tecnologia per conoscerci, per amarci, per odiarci, per ignorarci, diventeremo una massa di umani con connessioni interpersonali gestite da forze indipendenti dalla nostra volontà.
Non chiederemo più il pane ma supplicheremo per una connessione wi-fi, per un abbraccio virtuale o per poter condividere le nostre frustrazioni.
Stupidi genitori che stanno insegnando ai figli cosa significhi non sentirsi mai dire di no stanno creando una generazioni di piccoli idioti incapaci di resistere ad un rifiuto alzando la dipendenza psicologica dall’approvazione altrui.
Il mito dei like, delle visualizzazioni, dei followers costringe i più ambiziosi a modificare se stessi per adeguarsi ai gusti degli altri, si elimina l’improvvisazione e la sperimentazione in nome di un successo che deve essere immediatamente quantificabile attraverso l’approvazione di massa.
Fondamentalmente stanno creando un mondo di merda in cui gli influencer avranno il potere di farci credere che il prodotto migliore è quello che loro fanno finta di usare, i politici avranno il potere di farci credere che si può sostituire la libertà con il permesso di accedere alla rete e gli artisti saranno solo servi del potere che misureranno il loro talento in base a quanti stronzi avranno visualizzato le loro cagate “creative”.