Il poeta è un fingitore

“Il poeta è un fingitore”
Direbbe il poeta.
“Il poeta è un grande contapalle”.
Dice il Prussia.
Sa quello che la gente si aspetta di leggere e lo scrive.
Il poeta fa fuochi d’artificio, costruisce pagliacci che escono da scatole di latta, enormi bolle di sapone che volano per qualche secondo e poi scoppiano lasciando sul pavimento uno sputo di sapone sul quale è facile scivolare.
Chi ama la poesia adora essere truffato.
Venderebbe l’anima per un assegno scoperto.
Chi crede alla poesia è uno stupido pesce che abbocca all’amo per il gusto di sentirsi parte di una pesca miracolosa.
Con parole mie, chi crede ai poeti è un coglione.
Il poeta va letto ma mai creduto.
La sua arte è compensazione di un anima zoppa, è il pezzettino di carta sotto la gamba del tavolo che impedisce al tavolo di ballare.
La sua arte è un riflettore puntato su se stesso nella convinzione che si possa mimetizzare la sua precarietà andando a caccia di un inesistente assoluto.
La sua arte è un vibratore che lui spaccia come il suo personale, magnifico e instancabile organo sessuale.
Poi esistono i geni.
Che è peccato mortale chiamare poeti tra i poeti.
Per loro la poesia non è rappresentazione di se stessi, ma il loro nascondiglio.
Non scrivono per sorprendere ma per offendere.
Non hanno bisogno di essere capiti perchè nemmeno loro si capiscono.
Vomitano sui tramonti, calpestano l’amore, sputano nell’oceano e scrivono come se lo scrivere fosse l’unico modo per buttare fuori tutte le scorie di una vita senza senso.
Il vero poeta quando scrive è come se cagasse.
Ingoia vita e caga poesia.
E la merda che produce paradossalmente è l’essenza sublime di una sofferenza senza fine.
E per dimostrare tutto questo vi lascio con una meravigliosa cagata di quel genio chiamato Paul Verlaine, che ancora oggi a leggerla mi emoziona:
“Colloquio sentimentale”
Nel vecchio parco gelido e deserto
sono appena passate due forme.
Hanno occhi morti, e labbra molli,
e le loro parole si odono a stento.
Nel vecchio parco gelido e deserto
due spettri hanno evocato il passato.
– Ricordi la nostra estasi d’allora?
– E perché vuoi che la ricordi?
– Batte ancora il tuo cuore solo a udire il mio nome?
Ancora vedi in sogno la mia anima? – No.
– Ah, i bei giorni d’indicibile felicità
quando univamo le nostre bocche! – Può darsi.
– Com’era azzurro il cielo, e grande la speranza!
– Vinta, fuggì la speranza, nel cielo nero.
Andavano così tra l’avena selvatica,
e le loro parole le udì solo la notte.
G.P.
Photo di Guido Prussia

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