Scappavo

Scappavo.
Dormivo sul treno che va da Genova ad Acqui Terme.
Mi facevano compagnie prostitute di colore e l’odore marcio dei sedili di velluto consumato.
Appoggiavo la testa contro il vetro e creavo una nebbia di vapore che spappolava le luci dei lampioni e rendeva il paesaggio pauroso.
Avevo diciassette anni e me ne sentivo mille.
Ero alla ricerca della libertà come se la libertà fosse qualcosa di vivo con la quale parlare e chiedergli quanto mi poteva costare farci l’amore.
Sono passati quasi quarant’anni e la sto ancora cercando, nonostante sia invecchiata come me, abbia rughe profonde e un ventre flaccido che ha partorito mille fughe e mille ritorni.
Non avevo paura di nulla.
In realtà avevano paura di me come si ha paura di qualcuno che non ha nulla da perdere.
Dicono che fossi incapace di stare alle regole, ripensandoci mi verrebbe voglia di precisare che erano le regole a sbattermi fuori dal loro recinto, come se fosse piu’ facile eliminare un errore che tentare di correggerlo.
Ho amato poche persone nella mia vita.
E tra queste mi sono accorto che ci sono anche io, quell’io ragazzo che visto da lontano mi sembra quasi un altra persona, ripensandoci è come se lo incrociassi per strada e lo guardassi come si guarda qualcuno che sai di conoscere ma non ricordi perchè, dove e quando.
Ripensandoci mi ricordo di averlo visto rabbioso incapace di capire perchè si sentisse cosi’ poco degno di un abbraccio.
La prima volta che una ragazza disse che aveva voglia di baciarlo lui la guardò e le disse:
Sei sicura?
E quando lei disse che era sicura, lui la bacio’ chiedendosi per chi l’avesse preso.
Non era insicurezza.
Era disabitudine.
Se mi scanso quando mi sfiori non è per fuggire da te, è solo che non sono abituato alle altezze e se devo attraversare un ponte devo farlo ad occhi chiusi per non rischiare di essere attratto dal vuoto.
E poi le domande.
Sempre le stesse.
Cosa nasconde la fine?
Qualsiasi fine.
Cosa accade dietro la tenda quando si chiude.
Le notti passate a fare ipotesi e quando sorgeva il sole sembrava che la curiosità si dissolvesse per poi tornare piu’ curiosa di prima la notte successiva.
Mi mancava l’abitudine agli addii e li cammuffavo con uno sguardo che prometteva di tornare.
Ma non tornavo per non rischiare di scoprire come cambiano le cose e le persone.
Scrivevo.
Scrivevo e scrivo.
Come fossi un contadino che passa un aratro su un foglio bianco spargendo semi da fiore senza sapere di quali fiori siano.
Crescerà qualcosa.
Crescere è inevitabile.
Anche quando vorresti fermarti.
Darti una tregua.
Sederti ed aspettare, fermare il tempo come un giocatore di scacchi, aspettando la mossa del tuo avversario.
Ma il tempo non si ferma.
Cresce la distanza fra me e me, e lui scappando giu’ per la discesa si chiedeva dove avrebbe dormito quella sera.
Se avesse provato ad aprire un auto, se faceva caldo poteva dormire sotto una palma ai giardinetti, o se voleva sentirsi in viaggio c’era sempre il treno per Acqui Terme.
Io dormo in questa casa immobile, su un letto immobile in un scorrere di attimi che come scale mobili mi allontanano dall’inizio fino a sfuocarne il saluto, lo sguardo e l’arrivederci.
Prigioniero del tempo che è passato e che non mi ha cambiato.

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