Al fiume

Spegne la luce.
In mezzo alla stanza c’è una scrivania e una sedia illuminate di taglio dall’insegna del negozio di fronte.
Si siede.
Apre un cassetto.
Estrae una lettera scritta a mano sulla quale è scritto:
Stavo andando al fiume, era mattina presto, mi sono tolta i jeans e la shirt e senza pensarci molto mi sono buttata.
Avevo voglia di nuotare.
Faceva caldo ma l’acqua era fredda.
Nuotai sfidando la corrente fino ad arrivare ad afferrare il ramo di un albero bloccato tra due rocce.
Smisi di nuotare, la corrente mi teneva a galla, la presa mi teneva ferma.
E rimasi cosi’ per non so quanto tempo.
Mi scorrevano di fianco pesci color argento e foglie di mille colori.
E resistendo passivamente alla corrente cominciai a pensare a te.
Te che avresti indossato qualsiasi maschera pur di non mostrare quella necessità di essere trovato.
In una foresta saresti stato un albero, in una spiaggia ti saresti travestito da scoglio, in quel bar sembravi una bottiglia dimenticata a metà.
Io odio i bar.
Entrai cercando una spiegazione alla mancanza di benzinai aperti nel giro di cinquanta miglia.
Il barista mi disse: provi col whisky.
Alberi, scogli e nemmeno bottiglie dimenticate a metà sorridono, tu si.
Fu la prima volta che venni a sapere che esistevi.
Mi salvasti. La prima di tante volte.
Avevi una tanica di benzina sul tuo van, e io ero a secco.
Da cosa scappi? Mi hai chiesto.
Io non scappo. Ti risposi.
So riconoscere chi non ha una direzione.
E io rimasi in silenzio, fino al momento di dirti:
Grazie.
e
Come fai a riconoscere chi non sa dove andare?
Chi non sa dove andare ha un nastro che le lega i capelli e il nodo si puo’ sciogliere con una mano sola.
Ti sei avvicinato hai afferrato il nastro e lo hai sciolto usando due dita.
Liberi.
Ricordo come fosse ora. Hai detto.
Liberi.
Ho imparato che la vita cambia come si spegne una lampadina. O si accende.
Tra il buio e la luce non c’è spazio di pensare.
Non è trovare ciò che si cercava.
E’ avere di fronte ciò che si sarebbe dovuto cercare e di cui si ignorava l’esistenza.
La tua esistenza mi ha sconvolto.
Ero come una bambina meravigliata dall’assaggiare per la prima volta quello che sarà per sempre il suo cibo preferito.
Pensavo a tutto questo mentre galleggiavo e sentivo nell’aria l’odore di legna bruciata.
Ho voluto scrivertelo perché tu sappia che da qualche parte in un determinato momento c’è stata una donna che ha pensato a te come l’uomo che ha finalmente dato un senso alla sua vita
Finirà.
Perché tutto finisce.
Anche le mie mani hanno dovuto lasciare il ramo e mi sono trovata in balia della corrente.
Nuotai, raggiunsi verso la riva, e mi incamminai verso casa.
Ricordati.
Qualsiasi cosa succeda.
Nuota, trova la riva e incamminati verso casa.
Io sono a letto. Cosa stai facendo?
Stavo rileggendo la tua lettera.
Ti piace quella lettera.
Molto.
Sai che è tutto vero?
Per questo mi piace.
Prima di venire a letto mi prendi per favore il libro che ho lasciato sul divano.
Guido Prussia

Quanta verità riesci a sopportare?

L’anziano guardò negli occhi il bambino e gli disse:
“Quanta verità riesci a sopportare?”
Il bambino abbassò lo sguardo e rispose:
“Non lo so.”
Lui prese una pietra da terra e gliela mise in mano.
“Pesa?” gli chiese.
“No.” Rispose.
Prese la pietra e la mise di fronte a un piccolo buco nel terreno coprendolo.
“Ora quelle formiche non possono piu’ uscire. Sono in trappola. Ed è bastata una piccola pietra.”
Il bambino non capiva.
“Liberale.” Gli disse.
Il bambino si abbasso’, raccolse la piccola pietra e la gettò via.
“Non ti è costata molta fatica fare quello che mille formiche non sarebbero riuscite a fare.”
“Quanta verità riesci a sopportare?” Gli chiese di nuovo.
“Quella che basta a sentirmi libero.” Rispose il bambino.
Ascolta:
“Amerai e potrà capitare che dovrai abbandonare ciò che ami.
Ti sentirai in colpa per questo,e non sarai capace di trovarti un alibi.
Potrai salvare persone, animali e anche cose ma loro lo dimenticheranno.
Ti sentirai inutile come una penna che ha finito l’inchiostro, e le tue parole saranno segni indecifrabili su fogli di pietra.
Sentirai il peso della sofferenza degli altri sentendoti in debito per la tua salute.
Un debito senza creditore che ti farà nascere sensi di colpa.
Avrai voglia di essere amato e costruirai nella fantasia parole, volti, e carezze e le farai recitare ad attori consumati nell’arte di compiacerti ma incapaci di riconoscerti.
Il tuo cane ti morirà tra le braccia.
Parlando con tua madre sentirai la voce di tuo padre urlare da lontano: “Salutamelo”.
E sarà l’ultima volta che udirai la voce di tuo padre.
Ti commuoverai e ti chiederai sempre se è solo una questione scientifica legata a quel cazzo di sistema limbico, o se dietro quella commozione c’è l’anima di un uomo.
Ti sentirai inutile come un lampo davanti a un cieco o un tuono nelle orecchie di un sordo, e crollerai sulle ginocchia chiedendo perdono per colpe che non hai commesso.
Sarai tentato di cedere alla necessità di sentirti cittadino di un territorio, ti chiederanno cosa sei disposto a fare per difenderlo, apparterrai a una razza, crederai a un Dio, e nonostante tu non abbia mai deciso niente di tutto questo finirai col sentirti orgoglioso di un appartenenza casuale.
Vedrai Imperatori grattarsi il culo sporco di merda e poi offrirti con le mani gli avanzi del loro pranzo.
Vedrai Giudici masturbarsi mentre scrivono le loro sentenze, godendo del potere di giocare con il destino delle persone.
Chi ha una mano darà giudizi sugli anelli degli altri.
Chi ha due piedi darà giudizi sulle scarpe degli altri.
Chi ha una testa darà giudizi sui pensieri degli altri.
E sarai solo.
Perchè finirai per rinchiuderti dentro una stanza piuttosto che vivere nella libertà di ascoltare milioni di cazzate.
Sarai un cercatore di eccezioni.
Quintofogli. Pezzi di meteoriti. L’ultima macchia di neve che resiste al caldo. Il primo numero di Topolino. La donna che ama.
La ricerca darà un senso alla tua vita piu’ della scoperta.
Non sarai solo.
Riconoscerai quelli come te come il tatto riconosce il velluto.
Tutta questa verità ha un merito che non ha prezzo.
Ti da il permesso di non inginocchiarti mai davanti a nessun feticcio di presunta divinità.
Vivere non è un dono è un lavoro.”
Il bambino guardo’ l’anziano.
Rimase in silenzio per qualche secondo e poi disse.
“Ma ci sarà il tempo di giocare?”

Foto d’epoca

Sono colpevole

Si, sono colpevole.
Confesso.
Mi sono innamorato di chi non mi avrebbe amato mai.
Ho rubato dei dischi e dei giornaletti porno.
La mattina entravo nel bagno di fronte alla scuola e mi cambiavo i vestiti, entravo che sembravo Tony Hadley ed uscivo che ero Johnny Rotten.
Scappavo dalla finestra di notte per andare a ballare.
Ho provato un acido e sono precipitato per una notte intera all’interno di uno scivolo, la mattina dopo avevo i muscoli delle gambe distrutti dal tentativo impossibile di frenare la discesa.
Sono scappato dall’ospedale militare scavalcando il muro di cinta, quando mi hanno riportato dentro sono io ad aver inciso con le unghie sul muro interno: “Andate a fare in culo”.
L’ho messa incinta che era poco più di una bambina, io e lei, due colpevoli, i suoi genitori decisero che eravamo due coglioni, troppo coglioni per diventare genitori.
Io facevo finta di studiare, lei era in un ospedale a Londra ad abortire.
Ho comprato tutti gli strumenti musicali che servivano a formare un gruppo con un assegno falso, poi ho trovato un chitarrista senza chitarra, un batterista senza batteria e un cantante senza microfono ed ho formato un gruppo.
Io suonavo il basso.
Non sapevo suonare il basso, ma avevo pagato gli strumenti.
Avevo paura di non risvegliarmi, per questo di notte stavo sveglio piu’ che potevo, e quando mi addormentavo dicevo addio al mondo.
La mattina dopo ero risorto.
Potrei continuare a confessare.
Ma le uniche colpe che ricordo con dolcezza sono quelle che appartengono alla mia gioventu’, e ricordare fa male.
Facciamo cosi’.
Io le dico il peccato piu’ grave, cosi’ la finiamo qua.
“Ho creduto a cose che non si sarebbero potute mai avverare.”
Non mi crede?
Giuro che è vero.
“Ho creduto a cose che non si sarebbero mai potute avverare.”
Scoprirlo è stata la mia condanna.
La peggior condanna che si puo’ infliggere a un ragazzo.
Quindi per favore mi lasci andare.
Qualunque multa lei abbia intenzione di darmi io l’ho già pagata.
Guido Prussia

La vedo la ferita

La vedo la ferita.
Cazzo se la vedo.
Del resto non fai nulla per nasconderla.
Ma io non c’ero quel giorno. Ho un alibi perfetto.
Quale?
Ignoravo la tua esistenza.
Quindi mi dispiace ma non sono disposto a pagare colpe non mie.
Capisco tutto.
Capisco l’alcool, la droga, i pianti e il passato di merda.
Ma sai dove ho sbagliato?
Nel compiacere il tuo vittimismo.
Accade cosi’.
Tu entri in empatia con il suo ruolo di vittima e la vittima ti identifica col carnefice.
E sono cazzi.
L’unica cosa a cui non hai pensato è che sei un clichè
una ristampa
credo tu sia la numero quarantacinque
che mi descrive un passato di merda
con un musetto da scoiattolo impaurito.
Attendi la carezza per mordere.
Per questo ritraggo la mano dalla tua tana
e me ne torno a casa
semplicemente incazzato chiedendomi come mai gli umani
siano cosi’ predevibili, stupidi e sanguinanti.
Guido Prussia

Bilico

Vorrei dirti che ce l’ho fatta
che non ho trovato nessuna difficoltà
nell’intraprendere quella posizione zen
e che dopo aver meditato
ho capito il significato della mia maschera.
Vorrei rassicurarti che ho domato il mio istinto
e che potrei cullare una gallina tra le mie braccia.
Vorrei dirti che non annuso piu’ l’aria
e che ho smesso di arricciare il naso.
Ti potrebbe rassicurare il fatto che ho imparato a leggere e a scrivere?
Vivo in una casa normale, bevo e fumo, e possiedo due cani,
cosa che per un lupo è alquanto singolare.
Pensa che non sono io a divorare loro
paradossalmente li nutro ogni giorno
con una specie di carne chiusa in scatole di metallo.
Mi muovo in bilico su due zampe
e per non farmi riconoscere
mi sono fatto limare i due canini
dormo sdraiato in un letto,
quando nessuno mi guarda,
mi accuccio sotto le coperte
come fosse una tana.
Ti farà piacere sapere che non lecco più
e che ho imparato a tradire,
so anche scrivere storie brevi
con le quali provo a mordere alle caviglie
una lupa che fa finta di non vedermi.
Ora devo andare
dicono che domani verrà freddo
non vedo l’ora di provocare
nuvole di aria condensata
con il mio alito
se nevica non far caso alle mie impronte
quando vedo bianco
non resisto alla tentazione di togliermi le scarpe
e correre a quattro zampe
verso la cima della collina.
Guido Prussia

Nell’atrio

Ascoltando Jacqueline Du Prè
Nell’atrio è rimasto un pianoforte, dalla porta socchiusa si intravede il bianco della nevicata scesa durante la notte.
Il lampadario ha 36 lampadine di cui solo tre che si accendono. Il padrone di casa scende in vestaglia le scale, attraversa la stanza e chiude il portone provando un brivido di freddo.
Poi si siede al pianoforte e non suona.
Dalla tasca della vestaglia tira fuori una sigaretta e un accendino.
Fuma e pensa.
La solitudine costringe a riflettere sui propri pensieri, te li mostra nudi come bambini appena estratti dall’utero, con quello sguardo implorante salvezza e latte.
La madre ha il viso di una donna che suona un violoncello in maniera divina.
Cosi’ divina che nessuna religione la merita.
Cosi’ divina che quando le sue mani cominciarono a perdere sensibilità la malattia apparve come la vendetta di un Dio capace di creare la materia ma completamente negato nel creare l’arte.
Scientificamente parlando si chiama sclerosi multipla, non si ferma nemmeno di fronte alla musica, ma la musica si arrende di fronte a lei.
L’uomo finisce di fumare. Si alza dal pianoforte.
Sale le scale.
I suoi pensieri lo seguono come cani che hanno annusato la presenza di un osso nella tasca del padrone.
Prova a correre per seminarli.
Non ci riesce.
Poi si guarda in tasca. Afferra l’osso e lo lancia nel corridoio.
I cani hanno ciò che desiderano e i pensieri si arrestano.
Si sdraia sul letto e senza pensieri lascia che lo sguardo esca dal soffitto indifferente alla dama di corte, alla serva di colore, alle domestiche, al pavone e persino a una dozzina di putti.
Solo la musica.
Solo.
Guido Prussia

16 anni

A 16 anni mi chiudevo nella serra in fondo al giardino e mi facevo le canne.
Fumavo perchè mi piaceva, perchè era trasgressivo, perchè le strade pericolose erano le piu’ divertenti da percorrere, e perchè c’erano cose che non riuscivo ad accettare.
E bevevo. Andava di moda l’EKU 28, una birra che assomigliava ad uno sciroppo, faceva schifo ma aveva 28 gradi saccarometrici che ti permettevano di ubriacarti con una sola bottiglia.
Ero un coglione?
Certo che ero un coglione.
C’erano anche quelli meno coglioni, quelli bravi a scuola, quelli che non bevevano e non fumavano, ma loro appartenevano ad un altra tribu’.
Noi eravamo i “giovani coglioni”, loro erano i “giovani vecchi”.
Della tribu’ dei “giovani coglioni” alcuni morirono per overdose, alcuni si schiantarono col motorino, la maggior parte abbandono’ la tribu’ per entrare nella comunità degli adulti.
Della tribu’ dei “giovani vecchi” sopravvissero quasi tutti, non abbandonarono mai la tribu’, semplicemente le cambiarono nome, e verso i quarant’anni si ritrovarono nella tribu’ dei “vecchi mai stati giovani” disperatamente alla ricerca del tempo perduto.
Io adoro i giovani anche per la loro capacità di fare stronzate, non avendo figli il mio è un punto di vista privilegiato, ma allo stesso tempo è un punto di vista piu’ obiettivo.
Guardando molti di loro rivedo me, la loro precarietà mi ricorda quella che era la mia precarietà, la loro voglia di sperimentare la provai anche io.
Credete sia facile osservare sogni, ideali e certezze sgretolarsi giorno dopo giorno di fronte al cinismo degli adulti?
In fondo farsi una canna è un diritto, il diritto di chiudere gli occhi di fronte ai delitti quotidiani di una politica fatta da adulti avidi di potere e di denaro.
E pensare che basterebbe legalizzare per depotenziare il fascino di tutte le droghe, basterebbe legalizzare per fottere le mafie, basterebbe legalizzare per riavere dell’erba o del fumo privi di tutta la merda che ci infilano dentro.
L’adolescente ha il diritto di essere coglione almeno tanto quanto l’adulto si arroga il diritto di essere egoista, cinico ed ipocrita.
Tutto questo perchè se penso al ragazzino che si è buttato dalla finestra durante la perquisizione dei Finanzieri mi viene una rabbia che è la stessa rabbia che provavo quando da adolescente scoprivo a poco a poco come ad arrivare primi fossero sempre gli stronzi e i bari.
E da grande confermo:
La qualità migliore per fare carriere è essere una merda.
I grandi hanno gia scelto da che parte stare.
Ma un adolescente di fronte al dilemma se essere uno stronzo di successo o un onesto perdente il minimo che puo’ fare è farsi delle canne per non pensarci.
Guido Prussia

Benedizione

Mentre l’ambulanza la stava portando via, un uomo si avvicino’ e disse:
“Dovete salvarla, lei è tutto per me.”
Lei è tutto per me.
Io lettore, smetto di leggere.
Lei è tutto per me.
Questa frase si rifugia in un angolo dei miei pensieri, e mi guarda impaurita.
Ha paura di non essere riconosciuta.
Io mi avvicino lentamente con la mano che mi precede.
Una mano carezzevole, voglio che intenda che non c’è nessun pericolo.
Anzi.
Vorrei, avrei voluto, avessi voluto prenderla in braccio quella frase.
Averla vissuta fino al rischio estremo di doverla urlare di fronte al rischio di perderti.
Lei è tutto per me.
Ma Lei chi?
Lei che cammina da qualche parte del mondo, Lei che usciva dal bar un secondo prima che entrassi io, Lei che un vetro appannato nascondeva al mio sguardo mentre io cercavo di guardare dentro e lei cercava di guardare fuori.
Lei che è tutto per me e io sono tutto per Lei nell’ipotesi di una trama che nessun destino ha mai scritto.
Nonostante non abbia mai mangiato quel cibo, leggendo:
Lei è tutto per me
ne riconosco il sapore che è custodito nell’anima dei tempi passati,
l’istinto atavico che ti permette di riconoscere il gusto dell’amore
anche senza averlo mai assaggiato.
E dal suo volto scompare la paura
“lei è tutto per me”
si lascia accarezzare.
Io lettore riprendo a leggere e spero, spero con forza, che la salvino.
Guido Prussia.
(Leggendo “Benedizione” di Kent Haruf”)

Camera d’albergo

La camera d’albergo è per sua natura disinibita, prova sentimenti fragili e il suo aspetto tradisce solitudine e smarrimento.
E’ certamente superficiale, non per sua indole ma per scelta, sa che legarsi troppo a un ospite renderà piu’ triste l’addio.
A volte è trionfalmente squallida, a volte è squallidamente trionfale.
La arredano ricordi sbiaditi come fogli di giornale lasciati al sole, e parole d’amore volanti dette prima di addormentarsi che nel tentativo di fuggire hanno sbattuto contro le tende trasformandole in un giardino fiorito.
Guido Prussia

Ho una passione per la liberta’


Ho una passione per la libertà, mi eccità piu’ di qualsiasi donna, mi emoziona piu’ di qualsiasi amore, da significato alla mia vita piu’ di quanto non faccia qualsiasi appartenenza.
La amo a tal punto che quando si allontana da me non posso fare a meno di rimanere immobile a fissare il punto dove la vidi scomparire sapendo che da li la vedro’ tornare.
La amo a tal punto che le sono fedele senza sforzo.
A tal punto fedele da non permettermi di promettere nessun altra fedeltà.
Capisco le pecore che amano i recinti da quando hanno scoperta la presenza dei lupi, ma pecore non si nasce, e nemmeno lupi, non si nasce pastore ne bastone.
Si diventa.
Ci sottomettiamo alla trasformazione come legno nelle mani del falegname, poi osserviamo la nostra forma prendere forma e orgogliosi ci fotografiamo con facce da duri che postiamo nei nostri profili sperando che basti uno sguardo a creare un passato da pirati.
Ci ritroviamo scritti su un copione, recitati da noi stessi per un pubblico che nonostante il biglietto omaggio fa fatica ad entrare in teatro.
Tutto questo nel tentativo assurdo di essere riconosciuti sotto la maschera.
Io sono fascista, io comunista, io sono solidale, io sono per l’esplusione, io non sopporto i froci, io dico che siamo tutti froci, io sono juventino, io romanista, io ho trovato me stesso nello yoga, io dico che Dio è morto, io dico che senza Dio non puoi vivere.
Sei convinto di avere tutte queste idee.
Ci hai messo anni a scavare il buco in cui hai piantato il palo a cui hai dato il tuo nome e le tue idee.
Ora lo osservi resistere a ogni tempesta senza nemmeno renderti conto che un palo non ha nulla a che vedere con un albero.
Un albero forse si spezza ma è vivo, il palo è solo uno scheletro immobile.
Ho una passione per la libertà, amo vedere i rami che si muovono al vento, che si piegano sotto il peso della neve, amo seguire la ricrescita delle foglie, e l’inevitabile sottomettersi al tempo.
Liberamente cambio forma e idee.
Mi fanno pena i pali, piantati tutti in fila, al servizio di chi li ha voluti.
Di tutta la luce che trasportano a loro non resta che l’ombra di se stessi.
Guido Prussia