La strada incantata

A un certo punto la strada principale ti mostra un alternativa.
Un uscita a sinistra e un indicazione che ti invita a prendere la “Strada incantata”.
Impossibile resistere.
Sono 32 miglia che deviano dalla strada che va da Bismarck a Dickinson e che tagliano in due la prateria.
Zona di agricoltori e piccoli fiumi, casette di legno abbandonate e cavalli.
Rallento.
Rallento fino quasi a fermarmi , non ho nessuno che mi aspetta.
C’è un trattore davanti a me,non supero, mi guardo intorno come incantato dalla mancanza di contaminazioni.
Niente cemento, nessun segno del trionfo della rivoluzione industriale, solo sole e ombra che giocano a braccio di ferro.
Per la cronaca qualche ora dopo il sole si godrà il trionfo permettendosi il lusso di mostrarsi scomparire tuffandosi in un laghetto dove alcuni cavalli si erano dati ritrovo.
Sono affascinato da tutto cio’ che non ha tempo, natura, case, alberi, prati e animali che sembrano aver raggiunto l’eternità dell’immutabile come se il progresso fosse un affare che non gli riguarda.
Molti mi chiedono perchè io ami cosi tanto l’America.
Io amo l’America perchè sa essere adolescente e donna, anziana e bambina, dolce e cattiva, metropolitana e rustica senza mai smentirsi.
E poi….
E poi quella strada incantata nascondeva una sorpresa….
Ma questo lo scoprirete piu’ tardi.

Trasmissione a posto (almeno per ora)

Strano guidare senza ascoltare la trasmissione mandare urli minacciosi.
Un altra vita.
Alle sei sono sveglio, stanotte c’erano tre gradi, per questo ho infilato Baby dentro il sacco a pelo ed abbiamo dormito abbracciati scaldandoci a vicenda.
Jack è rimasto sopra la coperta protetto da una felpa imbottita.
Direzione nord, si lascia Bismarck e si va verso Stanton sempre in North Dakota.
E’ una strada statale che passa in mezzo a fattorie, campi dove pascolano mucche e laghi sparsi qua e là.
A me mi fotte la storia.
Quella con protagonisti esploratori, indiani, cowboy, insomma la grande epopea della conquista del west.
La storia mi frega perché mi seduce e mi obbliga ad inseguirla, si lascia prendere solo in qualche luogo dove il ricordo di quello che è accaduto è incancellabile.
Come sulle rive del Missouri dove gli indiani Hidatsa costruirono il loro villaggio formato da 50/60 Earth Lodge.
Arrivo e c’è una strada che porta verso il fiume.
A fare rumore sono solo il vento e una miriade di uccellini, il fiume prosegue silenzioso come un serpente a caccia di una preda.
Non posso fare a meno di immaginare il risveglio nel villaggio con le donne che vanno al fiume a prendere l’acqua e a lavarsi.
Un immagine costruita da mille film che oggi sembra dannatamente reale.
Cosi’ reale che quasi spero di veder comparire una squaw spuntare da un ansa del fiume, in una stretta lingua di terra che divide l’acqua da un piccolo strapiombo.
Dimentico la strada che mi ha portato fino qui, dimentico l’asfalto, le aree di servizio e persino il van.
Nell’ottocento tutto questo non c’era e questo fiume regala l’illusione del passato che si fa presente.
Niente foto, niente telefono, niente per mezz’ora.
Solo io, il fiume, gli uccellini e alberi che si godono il momento di gloria che l’estate gli regala.
Dispiace solo la presenza di una scala che facilità la discesa al fiume.
Qualcosa di comodo che diventa scomodo per il mio viaggio fantastico e che annullo dalla vista concentrandomi sulla riva opposta.
I luoghi raccontano storie e il tempo è solo un sipario dietro il quale tutto si ripete all’infinito.
Qua vivevano, qua cacciavano, qui le donne si dedicavano ai loro piccoli orti, da qui partivano per la caccia al bisonte e qui tornavano felici o affranti.
Incapaci di immaginare che tutto sarebbe finito.
Chi vive guardando ogni giorno scorrere il fiume da nord verso sud non prende nemmeno in considerazione che qualcuno desideri invertirne il corso rischiando di svuotare il mare e allagare le terra.

Fargo – North Dakota

Fargo.
North Dakota.
Prima impressione.
Che cazzo ci faccio qui?
Domenica sera, strade deserte.
Case distese su una pianura ghiacciata d’inverno e svogliatamente grigio verde d’estate.
Vado in cerca del cinema sulla Broadway visto in mille foto, con nella mente il film dei Fratelli Cohen.
Poi dopo averlo fotografato torno sul van in cerca del volto della città.
E come molte città americane anche questa è una citta senza volto.
Mille gambe, mille braccia, tante dita, una pancia e un culo, ma nessun volto.
Il viaggiatore è strano, a volte fa migliaia di chilometri per sorprendersi di qualcosa che aveva anche sotto casa.
Per questo ignoro lo zoo, la fabbrica di birra e la stazione e mi concentro sulle case.
Case timide, si nascondono dietro gli alberi, le case raccontano la città meglio di qualsiasi operatore turistico che ne declama le superbe qualità senza esserci mai stato.
Case tane, ogni casa una famiglia, un garage, un canestro da basket e scale di legno da dipingere la domenica pomeriggio.
Giardinetti dove sono parcheggiati tricicli e harley.
Fargo mi ricorda un amore di campagna, aveva i capelli sempre spettinati e mangiava bastoncini di legno, aveva un sapore di erba e paura di attraversare la strada, viveva al confine tra la campagna e la città e mi faceva entrare di nascosto in camera sua lasciandomi aperta la porta della cantina.
Fargo si chiamava Marta, quando scappavo di casa andavo da lei che si eccitava all’idea di salvarmi.
C’è sempre qualcosa di buono nelle persone.
C’è sempre qualcosa di buono in ogni luogo.
Ma non fidatevi mai dei depliants turistici, sono come quelle foto profilo su Facebook dove siamo venuti particolarmente bene.
La realtà è un altra cosa.
Guido Prussia
Photo by Guido Prussia

Tu credi?

-Tu credi alla vita eterna?-
-Dipende da che cosa intendi tu per vita.-
-Intendo la coscienza di me. L’avro’ per sempre?-
-Tu vuoi sapere se continuerai a trasformare il tempo in ricordi e i ricordi in personalità.-
-Esatto.-
-Chi costruisce castelli di carta dovrebbe sapere che piu’ il castello è alto meno vento ci vuole per farlo crollare.-
-Quindi?-
-Quindi rimarranno carte sparse sul tavolo, Dio si alzerà andrà a chiudere la finestra e ricomincerà a costruire un nuovo castello impossibile.-
-Io non credo in Dio.-
-Sarà un castello diverso nonostante usi le stesse carte.-
-Hai capito quello che ti ho detto? Io non credo in nessun Dio.-
-Lo so.-
-Tu sai tutto.-
-Io leggo.-
-Leggi?-
-Leggo nei tuoi occhi.-
-Zoe, tu credi di sapere troppe cose di me.-
-Scusa. Ma a volte mi sembra di sapere anche cio’ che tu hai dimenticato.-
-Io dimentico tutto.-
-Vedi. Lo sapevo.-
-Ma dimenticare è un modo di difendersi.-
-Dimenticare è un modo per nascondersi.-
-Nascondersi da chi?-
-Da se stessi.-
Guido Prussia
Photo di Guido Prussia

Parliamo un po’ dell’amore

Parliamo un po’ dell’amore.
L’amore che porta a nascondersi per la paura che rivelando chi siamo forse non verremmo piu’ amati.
Quel sentimento che una volta finita la voglia di fare l’amore non ha il coraggio di cambiare nome.
Prima di chiudere la luce due piedi si incontrano sotto le coperte e si sentono estranei.
Ricordi l’emozione di quando quel piede lo sfioravi e stavi li ad aspettare se ti rimaneva accanto o si spostava.
C’è un capannone dove si accumulano i desideri finiti, c’è un tipo alla porta che ti da un buono compagnia in cambio di un chilo di passione.
Pensi: sempre meglio che niente.
Eppure lei è quella che hai desiderato col cuore in gola, e lui è lo stesso che quando ti spogliava tu sentivi pulsarti in basso.
Le stesse persone che con l’energia di un bacio una volta accendevano tutti i lampioni di Montmartre oggi devono stare attenti a non sprecare l’ultimo fiammifero per accendere la candela durante il black out.
Il solo modo per salvarsi dall’amore è viverlo togliendosi dalla mente che sia una maratona da portare a termine.
Non ci sono traguardi da raggiungere ma ostacoli da superare insieme fino a quando…
Fino a quando superarli insieme sarà piu’ faticoso che superarli da solo.
E dovrai decidere se fingere tutta la vita o dire la verità.
Sono cazzi.
Guido Prussia
Photo di Guido Prussia

Le cose

Ho un container dove tengo tutte le cose che ho raccolto nella mia vita.
E’ in un luogo che nessuno conosce. Sta dietro una colonna di container, credo sia il numero 34.
Le cose vivono.
Vivono dei ricordi che sono capaci di suscitare.
Vivono del desiderio che vi ha convinto ad acquistarle.
Vivono delle speranze che su quelle cose avete riposto.
Vivono della gioia che vi hanno dato.
Vivono della disperazione che avete provato nel perderle.
Vivono dei sogni e dei bisogni che vi hanno convinto a farle vostre.
E muoiono del nostro stancarci.
Muoiono dell’arrivo del nuovo modello che sostituisce il vecchio.
Muoiono per i nostri traslochi di casa in casa.
Trasloca il bambino che diventa uomo, l’uomo che diventa vecchio.
Non trasloca piu’ il vecchio che muore, ma in quella piccola e ultima casa non c’è posto per le cose.
Le cose sono vive, piu’ vive di noi che le dimentichiamo, piu’ vive dei nostri desideri destinati a consumarsi come le batterie che fanno funzionare le cose.
Potreste scoprire la storia della mia vita attraverso le cose che mi hanno accompagnato.
Il mio pupazzo preferito era un clown che veniva venduto insieme al suo cagnolino di plastica.
Con i primi soldi guadagnati comperai uno stereo portatile.
Il regalo piu’ bello che mi feci fu la mia prima chitarra.
Quando mi innamorai le regalai un mazzo di fiori finti.
Lo so fa un po’ schifo come idea.
Ma mi faceva piu’ schifo l’idea che appassissero.
Cose, che ci raccontano.
Tutto questo pensando a ieri quando sulla strada per Owatonna vidi un enorme capannone sulla sinistra dove si vendevano cose.
Sono uscito dalla Highway e sono andato a vedere.
E sapete che vi dico?
Mentre io guardavo loro, avevo l’impressione che fossero loro a guardare me.
Le cose vivono.
Le cose che ho fotografato in quel luogo sono il mio regalo per voi che mi seguite.
Magari trovate qualcosa che vi ricorda…qualcosa.

Amana Colonies

Ci sono luoghi che non si scordano.
Uno di questi sono le Amana Colonies, sette villaggi a nord di Iowa City disseminati su un anello di 27 chilometri.
Arrivai qui qualche anno fa e mi sembro’ di esser tornato indietro alla metà dell’ottocento.
Mangiammo, ero con Sabina, in un ristorante dove servivano wurstel e crauti, a servirci era una ragazza vestita con abiti coloniali.
Se non avessi letto prima la storia delle Amana Colonies avrei creduto di essere come Benigni e Troisi in “Non ci resta che piangere”.
Queste colonie furono fondate tra il 1855 e il 1861 come comunità religiosa dagli “Ispirazionisti”.
Gli Ispirazionisti sono una setta protestante fondata in Germania nel 1714, arrivati in America condussero fino al 1930 un esistenza basata sul lavoro di tutti che veniva pagato in una cassa comune che poi veniva messa a disposizione della comunità.
A differenza degli Amish e dei Mennoniti gli Ispirazionisti usano le tecnologie moderne.
Arrivo nel villaggio principale verso le cinque del pomeriggio, e come ormai è consuetudine, non c’è nessuno in giro.
Cammino per le strade deserte godendo del profumo e del colore dei fiori, c’è un uomo che mette a posto un recinto, un altro è alla guida di un piccolo trattore e lavora nei campi, in un capannone c’è il ricevimento di un matrimonio.
La Amana Colonies sono circondate da paludi, mi fermo a fotografare degli uccelli, poi mi ritrovo di fronte allo stesso semaforo che mi incanto’ qualche anno fa.
E’ solo un crocevia, sormontato da un semaforo in cui lampeggia il rosso, fa tenerezza un semaforo dove non passa nessuno.
Naturalmente sbaglio strada, mi ritrovo in mezzo a delle mucche, poi su una strada sterrata, per finire su delle rotaie dove sullo sfondo vedo arrivare un treno.
Poi ecco la strada giusta che porta a Iowa City.
Quanto mi piace tornare nei luoghi in cui pensavo di non tornare mai piu’.

Rispettare un figlio.

Rispettare un figlio insegna al bambino a farsi rispettare.
Io non sono padre, ma se lo fossi farei capire a mio figlio che la sua fatica ha un valore, e che non bisogna mai svendersi.
Crescere con genitori che ti fanno sentire un coglione ti porterà da grande ad accettare tutte le proposte come un regalo, ed è il miglior modo per diventare uno sfruttato.
Cambiare opinione su se stessi è un impresa.
Mi sembra di vederla la mia faccia che si affloscia di fronte all’offerta scandalosa per la mia prestazione lavorativa.
Del resto è già tanto se qualcuno mi offre qualcosa.
Grazie papà per avermi rotto il cazzo per anni dicendomi che nella vita non avrei mai combinato nulla, questo è il risultato.
Accetto qualsiasi cosa, basta che mi sia concesso il lusso della sopravvivenza.
Nelle materie che studiavo a scuola ne mancava una.
L’autostima.
Io la metterei obbligatoria.
Insegnare ai bambini a stimarsi, a volersi bene, ad abbracciarsi, cercare le loro potenzialità ed esaltarle, insomma insegnare che nella vita non ci si vende ma si concede l’utilizzo delle proprie capacità.
Per me ormai è tardi.
Non posso pretendere che alla mia età si impari a tirare fuori i coglioni, avro’ sempre quell’aria compiaciuta del cane di fronte all’osso di fronte a qualsiasi offerta che mi permetta di fare questa vita da vagabondo.
Ma se c’è qualche giovane tra chi mi legge vorrei dirvi che se fossi vostro padre cercherei di farvi capire che l’errore piu’ grosso è considerare chi vi sfrutta un benefattore.
Piu’ talento avete piu’ cercheranno di fottervi, perchè se avete del talento lo avete sviluppato nel silenzio e nella solitudine di un infanzia difficile.
Loro lo sanno.
Vi daranno quella carezza che avete agognato da bambini e poi vi diranno:
Prendere o lasciare.
Voi ancora sconvolti dalla carezza prenderete, e vi sarete venduti ai saldi invernali come maglioni ormai inutili di fronte all’arrivo della primavera.18358999_10212668782811213_401922258276162585_o

Lily Dale

Avete un amico a cui credete ciecamente?
Una di quelle persone che se vi raccontasse di essere stato rapito dagli alieni voi non mettereste in dubbio il suo racconto.
Io avevo un amico cosi’.
Si chiamava Giorgio Medail.
Prima fu il mio capo, poi divenne il mio maestro ed infine ci ritrovammo amici.
Giorgio si interessava di esoterismo e di tutto cio’ che potremmo chiamare “misterioso”.
Naturale che venne a Lily Dale nello stato di New York.
E’ una comunità dove sono ammessi solo spiritisti e medium che hanno frequentato almeno per un anno la chiesa spiritista locale.
Giorgio venne qui e torno’ con una cassetta video.
Un giorno mi chiamo’ nel suo ufficio e mi disse: Guarda!
E sulla televisione vidi comparire un enorme salone nel mezzo del quale c’era un enorme tavolo di legno e una medium anziana.
A un certo punto l’enorme tavolo comincia a girare come impazzito per la stanza e a rispondere, battendo le gambe sul pavimento, alle domande di Giorgio.
Cio’ che vidi mi lascio’ senza parole.
Non tanto per il fatto che il tavolo si muovesse da solo, ma per l’incredibile sequenza di risposte logiche che il tavolo diede alle domande che gli venivano poste.
Naturalmente la spiegazione era che attraverso il tavolo era uno spirito a comunicare.
Chiesi a Giorgio mille volte: Ma era tutto vero?
E mille volte mi rispose di si.
Il tavolo lui non riusciva nemmeno a sollevarlo tanto era pesante, eppure comincio’ a girare e a muoversi da solo come una piuma spinta da un vento intelligente.
Tutto questo avveniva circa 20 anni fa ed è da allora che ho come l’obiettivo di passare da Lily Dale.
Curioso di vedere quali energie si avvertissero in un luogo dove vivono umani che ogni giorno comunicano con gli spiriti.
E ieri finalmente entro nella comunità di Lily Dale.
Le strade sono deserte, l’unica persona che incontro è un vecchio signore con un bastone in mano, gli tremano le mani per il parkinson, gli chiedo se è un medium, mi risponde che lui è spiritualista ma non medium.
E dove sono i medium? Chiedo.
Sei passato fuori stagione. Mi risponde.
I medium arrivano con l’estate.
Come i gelsomini gialli, le fresie e le begonie.
Il giardino è senza fiori oggi ma non voglio andarmene.
Non ancora.
E cammino.
Ci sono luci dentro le case, intravedo nuche che spuntano da divani, televisioni accese, un anziana signora su una poltrona e un marito e moglie che entrano nella chiesa spiritualista.
Li rincorro.
Mi vedono e sorridono.
L’uomo è molto anziano.
Glielo chiedo o non glielo chiedo?
Glielo chiedo.
“Mi scusi lei vive qui?”
“Si.”
“Lei crede agli spiriti?”
Sorride.
“Certo che ci credo.”
“E se una bambina muore a pochi mesi di vita. Il suo spirito si è gia’ formato?”
“Si. E se il suo corpo muore, il suo spirito invece continua a crescere.”
Grazie.
Esco dalla chiesa, ma prima fotografo un quadro raffigurante una casetta sotto la neve.
Torno per le stradine deserte.
C’è un tempio all’aperto. Poi una stradina che porta verso un lago. E angeli dappertutto.
E dentro di me porto il ricordo di Giorgio.
Ogni passo che faccio penso che lo fece anche lui, quello che guardo penso che anche lui lo vide, e gli parlo camminando come se fosse li.
Poi torno al van, metto in moto e me ne vado da Lily Dale.
Guardo dallo specchietto retrovisore il cancello allontanarsi.
Poi sposto lo sguardo sui miei occhi riflessi nello specchietto e vedo gli occhi mio padre che mi guardano.
Benedetta Lily Dale.

Angelica

Sono le dieci meno venti di sera, scrivo da uno Starbucks dalla citta di Eire in Pennsylvania.
Oggi ho visto cose bellissime, per voglia e per caso.
Mi accorsi che il serbatoio della benzina era vuoto mentre passavo per caso accanto alla città di Angelica.
Esco dalla 86 sulla sinistra c’è il benzinaio, ma prima di arrivare vedo un cartello indicarmi che andando a destra sarei arrivato al vecchio centro cittadino.
Come sarà la citta di Angelica?
Faccio benzina e vado a vedere.
Una grande piazza con un piccolo parco giochi mi introduce alla Main Street, e attorno ci sono solo io e case che sembrano uscite dalla favola di Hansel e Gretel.
Mi aggiro guardando le finestre semichiuse come un cacciatore di sguardi furtivi.
Mi basterebbe un occhio che spunta da una tenda, o un gatto che rientra velocemente in casa.
Ed invece nulla.
Siamo io e la città.
Finisce che comincio a parlarci con Angelica.
Vorrei chiederle perchè è cosi’ sola.
Certo non è piu’ giovane, le sue case sono consumate, le sue vie sono di un asfalto piu’ rugoso del solito, e persino il suo parco giochi e tristemente deserto.
La immagino con la neve e le luci di Natale, o d’estate con gli alberi che esplodono di verde, la immagino di domenica vestita a festa, Angelica oggi è triste e mi guarda dispiaciuta di non poter mostrare il suo tempo migliore.
Lei non sa che mi piace cosi’.
Io amo le strade deserte, le case che sembrano abbandonate, i negozi chiusi che ti chiedi se hanno mai aperto, amo quella malinconia che riempie l’aria di ricordi.
Sono stato ad Angelica il tempo di abbracciarla e di fotografarla poi me ne sono andato verso Ovest, sentivo la sua voce chiedermi:
Ritornerai?
Gli risposi che tornerò e mi fermerò a salutarla.
La prossima volta anche con il serbatoio pieno.